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“Siamo tutti di Siena”

“Siamo tutti di Siena” è un tormentone che ti accompagna per tutta la vita, se ti capita di nascere in quella piccola città che in tanti, da tutto il mondo, desiderano visitare. Fosse anche solo per il tempo di un cono medio.

“Siamo tutti di Siena!” mi diceva il mio nonno quando mi portava per mano dentro Piazza a guardare le batterie la mattina della Tratta. Per cui ognuno ha la sua bandiera e i suoi colori ma, quando c’è da stare uniti, i colori sono solo il bianco e il nero. Perché siamo tutti di Siena.

“Dai, siamo tutti di Siena” me lo disse anche quel bordello di un’altra Contrada che avevo trovato per caso in vacanza e che a Siena appena mi salutava, quando gli prestai una fiche al Casinò di Saint Vincent.

“Grandi! Siamo tutti di Siena, perdio!”, ho pensato dal mio comodo divano quando alcuni miei amici sono andati a cucinare d’inverno per i terremotati.

“Cheddì, lo saprò? Siamo tutti di Siena” ci disse l’infermiera del pronto soccorso alla quarta flebo del mio migliore amico in coma etilico.

“Votami, siamo tutti di Siena!” mi disse quel candidato consigliere comunale che mi pregava di cercagli una ventina di voti.

“Votami, siamo tutti di Siena!” mi confermò anche l’altro consigliere comunale che stava dalla parte opposta.

“Siamo tutti di Siena…” provava a dire il venditore di rose del Bangladesh quando capiva che avevi già bevuto un po’ e ti metteva una rosa gialla in mano sapendo che non l’avresti fatta cadere per terra.

“Siamo tutti di Siena” gridano dei novelli Barbicone, pronti a defenestrare i potenti che hanno votato democraticamente. Con la stessa coerenza dello schizofrenico protagonista di Shining.

“Siamo tutti di Siena” leggo oggi su Facebook da gente che si scanna su qualsiasi argomento come se ci fossero ancora Provenzan Salvani e Farinata degli Uberti. Perché è vero, siamo tutti di Siena, però…ho ragione io!

Lo penso anch’io che siamo tutti di Siena. E come tutti quelli di Siena, ognuno di noi ha un grosso difetto: credere di essere di Siena più di tutti gli altri; di essere in cima al “sienometro”. Anche se poi dichiara che, ci mancherebbe, “siamo tutti di Siena”.

 

L’immagine di testata è un fotogramma della web serie di AOL “Making a scene” con James Franco nella sua citazione di Shining di Stanley Kubrick.

barberi

La quinta dimensione di Siena

Le prime tre dimensioni sono quelle dello spazio, la quarta è quella del tempo. Ce le danno quando si nasce. E fino a qui siamo tutti uguali. L’ho imparato a scuola ma l’ho capito all’Università; mi ci è voluto un film per capirlo. Un film di circa 12 ore in tedesco con sottotitoli in inglese. Se non fosse stato per quella compagna di studi così bella seduta accanto a me, non credo che sarei arrivato ai titoli di coda. Il film si intitolava “Heimat” di Edgar Reitz e racconta la storia di una famiglia tedesca dal periodo del nazismo fino al 1968. Ora che siamo abituati alla lunghezza delle serie televisive magari qualcuno di voi potrà anche prendersi la briga di guardarselo. Merita.

Heimat in tedesco vuol dire più o meno “Madre patria”, anche se tradurre un vocabolo così significativo dal tedesco all’italiano non racconta tutte le sfumature culturali che nel passaggio tra le due lingue inevitabilmente sbiadiscono.

Quel film mi fece capire quanto ognuno di noi sia inesorabilmente e ineluttabilmente collocato nel tempo e nello spazio. Io sono nato a Siena e questo sarà per sempre il mio spazio, anche se un giorno, come il mio amico Dario, deciderò di andare a vivere in Danimarca o se, come il mio amico Leonardo, avrò la sorte di metter su famiglia a Montecarlo. Sono nato a Siena nel 1975 e oltre allo spazio questo è anche il mio tempo: vuol dire che oggi ho 42 anni. E il tempo non si tira indietro nemmeno se guidi una Deloren.

Ma l’essere nato a Siena ci regala anche una quinta dimensione che è quella della Contrada alla quale si appartiene. Sono nato a Siena, nel 1975 e sono dell’Aquila. Eccola lì la mia quinta dimensione che porterò con me fino alla fine. Questa i protagonisti di Heimat non ce l’avevano.

Incrociando queste cinque dimensioni, uno di Siena riesce a capire più o meno chi siete. Perché con l’altalenante destino legato alle sorti del Palio si riesce a stabilire fortune e sfortune paliesche di qualsiasi individuo. Che, nel corso del tempo, inevitabilmente mutano al mutare della banderuola che gira sopra la Torre del Mangia.

Una vecchia signora dall’accento brianzolo accanto al mio ombrellone, oggi mi ha chiesto del Palio. Le ho detto che a diciassette anni avevo visto vincere l’Aquila quattro volte. “Però, lei è fortunato!”.

Vagliela a spiegare la “quinta dimensione” a una che per tutta la vita ne ha avute soltanto quattro.

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Despa Cito

Il tormentone da milioni di click che ha dato il colpo di grazia alla mia già precaria relazione con il mio cognome.

Alla fine degli anni ’70 essere nati a Siena e possedere un cognome che non finiva per “i” (ma era preferibile uno che finiva per “ini”), era abbastanza raro. Invece non era raro essere preso in giro per quella “o” che lo chiudeva. Vaglielo a spiegare che, da parte di mamma sono discendente di quelli che hanno scolpito le statue del Duomo, di quello che ha restaurato l’affresco dietro l’altare della Santissima Annunziata, che il mi’ nonno era amico di Mastuchino e che il mì bisnonno era protettore di sette contrade (perché prima funzionava così, se volevi bene a Siena).
Non c’era verso, per gran parte dei compagni di classe ero un “terrone”. Uno, una volta mi spiegò che ero stato sfortunato perché se almeno il cognome fosse finito con la “a” potevo fare finta di essere di Milano. Ma con la “o” non c’era scampo: terrone!

Il nome te lo porti dietro a vita e io ne avevo uno che, per gli “amici” mi faceva sembrare il fratello della scimmia di Tarzan. Feci delle rimostranze a mio padre chiedendogli almeno di poter utilizzare il cognome di mia nonna paterna. “Lentini” era camuffabilissimo e mi avrebbe mimetizzato alla grande tra i vari Bossini, Cesarini, Lombardini, Ceccherini, Bernini, Bruschettini. Lui provò a spiegarmi che Cito vuol dire veloce e che i suoi avi non erano gli Zulù ma Pitagora e Archimede. Tuttavia ma non fu abbastanza convincente. Smisi anche di leggere Topolino per essere sicuro di non trovare tracce del mio trisavolo Archimede Pitagorico.

Il nome comune era Bianciardi, c’era almeno un Bianciardi in ogni classe (io ne avevo due). Per farsi burla di me il mio amico Duccio, dall’alto del suo “Naldini”, mi chiama ancora “Bianciardino”. Come a dire: “sei di Siena anche te, dai. Però meno.”
Al liceo la botta grossa arrivò quando quella splendida ragazza di terza mi chiese: “E a te perché ti chiamano Cito?”. Fu lì, credo, che iniziai a masticarmi le unghie.

Le ore di scienze erano tutte una risata; per gli altri. Quando la prof spiegava le cellule: citologia, citoplasma, citozoi, citomegalovirus erano come una puntata di Mr Bean. Peccato che Mr Bean fossi io. Vissi un attimo di pausa quando passò dal Tolomei una ragazza che di cognome faceva “Chiavai”. Ahahahahhah, chiavai!!!! Ma, maledizione, cambiò subito scuola prima della fine del quadrimestre.
Erano gli anni del “Drive-in” e la domenica sera Giorgio Faletti, che ancora non aveva scoperto di essere uno scrittore di best seller, faceva Vito Catozzo, il poliziotto terroncello tamarro con la pancia. Secondo voi come mi chiamavano a scuola il lunedì mattina? Cito Catozzo.

Finalmente arrivò la maturità. “Alè! Andiamo all’università, lì di gente con il cognome strano sai quanta ce n’è!!!”
Al primo esame di inglese il professore scozzese mi segna come “Gamoiero Ciko” (c’è qualche stupido amichetto che fa il giornalista che mi chiama ancora così). L’anno dopo, seduti all’appello di informatica generale, il professore ci chiama in ordine alfabetico. Quando dalla C passa alla D, inizio a temere il peggio. Lo faccio arrivare in fondo e, siccome non ero stato chiamato, alzo la mano. Scoprii così di essere stato iscritto come Ciro Giampiastro. E per giunta bocciai anche all’esame.
Con l’età ho imparato a conviverci (mi ricordo anche di aver consolato mio padre quando indagarono il sindaco di Taranto che si chiamava come noi e che “non gli somigghia pe nniente”, praticamente due gemelli omozigoti).
Ho superato le prese di culo, i versi della scimmietta, i saluti alla Padrino, le domande su cosa avrei fatto se avesse vinto la Lega.

Ma quando, per colpa di quella canzoncina di merda, che fa “Pasito, pasito”, da qualche mese la gente ha cominciato a chiamarmi Despa, mi viene voglia di andare all’anagrafe e dargli foco. E per combustibile uso un dj che ama il commerciale latinoamericano.

Ps. Babbo, si fa per scherzare.

Obama

Barack & burattini

Alcune piccole premesse per chi dovesse leggere questo post:
1) non sono uno che ha la puzza sotto il naso, ma nemmeno uno con l’anello al naso
2) non sono radical, né tantomeno chic
3) forse, se fossi stato in città ieri, il mio filmino con Obama l’avrei postato anche io
4) voglio bene a Siena esattamente come voi, né più, né meno.
5) se venisse un Obama al giorno sarei più che felice

Bene, ora posso partire a scrivere.

Ho visto sui social un grande interesse tra i miei concittadini per l’arrivo di Obama a Siena. Bene. Mi ha ricordato l’arrivo di Carlo V salutato da folle festanti. Quindi mi giunge d’obbligo, per amor di metafora, provare a ragionare “alla senese” per cercare di spiegare quel che penso di Obama.

Obama è l’ex capitano di quella contradona che ci ha fatto fare da sgabello fin da quando nel ’44 ci fece togliere la cuffia. Che c’entra, è vero anche che nel ’44 si veniva fuori da un periodo nero e che negli ultimi due o tre anni ce ne avevano date come noci. Ê vero che ci pagarono il Palio e ci ricostruirono la società che ci avevano bombardato. Ci dettero fantino e rincorsa. Da allora siamo alleati ma il rinfresco glielo facciamo solo noi. Che c’entra, gli s’è mandato una manciata di delinquenti a vivere nel loro territorio che si sono anche organizzati e qualche volta sono entrati anche in Seggio. Però loro c’hanno messo le mattonelle e i braccialetti nelle nostre strade, quando ci sono le elezioni, la commissione elettorale sente anche loro. Una volta ci hanno fatto trovare un nostro ex priore in un bagagliaio e ci hanno tirato un missile nel palco per le prove. Ma non è sicuro che siano stati loro.
Ragazzi, non scherziamo, mica dico che la cuffia sarebbe stata meglio, o che sarebbe stato meglio essere sgabelli della loro avversaria. Però c’è toccato ingollare diversi fantini che facevano quello che conveniva a loro, specialmente il Gobbo Saragiolo. Ogni tanto c’hanno fatto vincere qualche prova, anche qualche Palio via via per farci credere che si stava bene. Però, diciamocelo, si voleva essere liberi di comandare e c’hanno soverchiato. E ce lo siamo anche fatto garbare.
Ieri è venuto l’ex capitano, quello simpatico, uno del popolino a giudicare dal colore. Infatti, come quelli del popolino, gioca a golf e fa una bella sottoscrizione.
Il capitano nòvo, invece, non mi garba per niente. Alle elezioni è passato male e gli si sono dimessi già un mangino e il vicebarbaresco. Ha fatto il capitano solo perché è pieno di quattrini. È uno che le spara grosse. Secondo me non arriva alla fine de mandato. Lo fanno dimette’ prima.
Almeno poi ritorna quello ganzo, che mangia la tagliata coi porcini del congelatore. E quando girano gli si riapre la chiesa e gli si spiega colle bandiere. Che tanto come bisogna fare il Palio ce lo spiega lui.

ginocchio sbucciato

I ginocchi sbucciati

A Siena le ginocchia si chiamano “ginocchi” per cui passatemi la licenza poetica del titolo.

Stamani ho rivisto, dopo tanto tempo, un esemplare di bambino con i ginocchi sbucciati. Credevo fossero in via d’estinzione e invece, quel ragazzino che andava a scuola con un pantalone della tuta alzato e con il ginocchio fasciato da una garza, mi ha rimesso in moto la mia macchina del tempo personale. Mi ero rassegnato al fatto che i bambini avessero smesso di giocare per la strada procurandosi delle ferite e quella gamba malconcia mi ha restituito una speranza. La speranza di rivedere qualche gruppetto di bambini che, invece di andare a scuola, si trovano in Piazza del Mercato a fare il Palio delle biciclette, tirandole a sorte perché nel Palio si fa così e poi tornano a casa inventandosene un’altra per giustificare quei jeans strappati e sanguinosi. Mi ero rassegnato al fatto che a forza di difendere i nostri figli dal bullismo, gli abbiamo tolto l’educazione dello scapaccione, della masa, del biscotto, della piffera dati a fin di bene.
Mi ero rassegnato al fatto che, in un mondo in cui tutto è organizzato, anche il tempo libero ci rende prigionieri. Prigionieri di orari da rispettare, di lezioni di sport dove gli amici non li scegli da solo, prigionieri di un’educazione che non prevede la maleducazione che si trova in natura nel corso della vita. I ginocchi sbucciati erano un dolore terapeutico, perché la vita ha bisogno di croste che si formano e poi staccano al tempo giusto. E se provi a staccarti le croste dal ginocchio prima del tempo, nove volte su dieci tocca ripartire da capo, dalla carne viva. Ed è più facile che resti la cicatrice.

Siano benedetti i ginocchi sbucciati e sia benedetta la vita, anche quando è dura e grigia come la pietra serena.

Torre del Mangia

Se crollasse la Torre del Mangia

Se una notte, prima di andare a dormire, noi che si abita in centro a Siena, si sentisse un boato e se, correndo a vedere quello che è accaduto, si scoprisse che è venuta giù d’un tratto la Torre del Mangia, i telefoni si paralizzerebbero. Ognuno chiamerebbe i propri cari come quando muore all’improvviso un parente. Si correrebbe tutti in pigiama alla Costarella per vedere se è vero, con le mani nei capelli. Lì si troverebbe sicuramente qualcuno che si conosce bene e qualcuno, che anche se si conosce poco, per quella sera diventerebbe uno con cui dialoghi perché devi condividere qualcosa che ti fa stare male. Ci sarebbe anche di sicuro qualcuno che sghignazza, perché lui l’aveva predetto che con quel capoccione di pietra prima o poi sarebbe venuta giù. Ci sarebbe chi piange e chi bestemmia, alcuni addirittura piangerebbero bestemmiando, altri starebbero zitti accoccolati al muro, altri ancora si abbraccerebbero singhiozzando. Si tornerebbe a letto all’alba aspettando il giorno dopo per vedere se viene giù anche il Facciatone, o San Domenico, non riuscendo a prendere sonno con gli occhi pieni di paura.
Poi il giorno dopo non crollerebbe nient’altro e la paura di tutti diventerebbero 55.000 voci diverse che vogliono dire a loro dividendosi in gruppetti.

Ci sarebbero i “colpevolisti”: quelli che devono capire a chi dare la colpa, perché se la Torre è crollata dovrà pur essere colpa di qualcuno. Tra questi si nasconderebbero abilmente i “cavalcatori di disgrazie” che punterebbero il dito su qualcuno per un tornaconto preciso e personale: “Secondo me la colpa è del custode che ha sbatacchiato la porta, lo conosco bene, è quello che tromba la mì moglie…”, oppure “è colpa del Comune, con tutti quei turisti appoggiati al Palazzo a bivaccare”, o ancora “è colpa di chi faceva le tre a bere in Piazza, con quelle fiatate d’alcol la Torre sbarellava!”.
Poi ci sarebbero gli “èandatacosisti”, quelli che, di fronte all’evidenza, si stringerebbero tra le spalle dicendo: “che ci vuoi fare, è andata così”, continuando a macinare la loro vita come il criceto dentro una ruota. Tristi, ma ormai è andata così.
Tra questi ci sarebbe una nicchia di “buonvisoacattivogiuochisti” che guarderebbero il Palazzo del Comune, ormai senza Torre e Cappella e direbbero, sottovoce, per non farsi sentire bene, “tutto sommato, così il Palazzo è più simmetrico”.

Ci sarebbero gli “sciacalli”, quelli che cercherebbero di lucrare sul dramma vendendo calcinacci e i “tordi”, quelli che comprerebbero un pezzo di mattone perché almeno si porterebbero un pezzetto di Torre del Mangia in Camera.
Ci sarebbero i “romantici”, quelli che in gruppo, meglio se dopo qualche gotto, si troverebbero nottetempo a guardare il vuoto dove prima svettava la Torre, cantando cori a quattro o cinque voci con le lacrime agli occhi.
Ci sarebbero i “guardoni” quelli che verrebbero a Siena per farsi un selfie con la Piazza mutilata.
Ci sarebbero tanti che starebbero a giornata a litigare per difendere la propria versione dei fatti.
Ci sarebbero quelli che si rimboccano le maniche per provare a ritirarla su, quella Torre, e quelli che criticano quelli che si rimboccano le maniche.
Ci sarebbe quello che ha capito esattamente come si sono svolti i fatti, ne è proprio certo, e che ce lo ripete ogni giorno dal suo blog.
Ci sarebbe qualcuno che è rimasto schiacciato sotto la Torre e che verrà ricordato soltanto il giorno dell’anniversario.

Poi ci sarei io, che sarei contemporaneamente: “colpevolista” e “èandatacosiista”, “romantico” e con le maniche rimboccate a non fare niente e a mettere mi piace il giorno dell’anniversario della tragedia. Ma con la stessa identica convinzione di ognuno degli altri, di essere quello che ama Siena più di tutti.

cuore

Il cuore a fette

Ieri Massimo ci ha rimessi tutti in fila. Come faceva per i compleanni di Marchino a casa sua. Quel rompiscatole che ti faceva alzare a raccattare lo stecco del gelato che avevi tirato nel ghiaino in Società; quel babbo che se non era il tuo babbo era solo un caso, ieri ci ha rimessi tutti in fila. Senza dire niente, lui che chiacchierava poco ma che c’era sempre, da sempre. Non è stato facile per niente. Perché appartenere ad una Contrada non è mica come fare parte di un gruppetto di amici e basta. E’ appartenere a un popolo che, come tutti i popoli: festeggia, si scontra e si divide. Ma in certi casi torna insieme a guardarsi negli occhi lucidi. Te sei lì, fuori da quella chiesa che osservi tutti, sapendo benissimo chi è che fino a ieri nemmeno si parlava e oggi, per rispetto, si dice “ciao”. Senza falsi sorrisi, sia chiaro, che tanto oggi di sorridere non c’è bisogno. Quando esce di scena un grande contradaiolo non c’è bisogno di darsi l’appuntamento, tanto trovi tutti lì. Perché quando tiri la riga in fondo al foglio, e la bilancia pende dalla parte della grandezza, anche chi fino a ieri non ti considerava, si toglie il cappello.

Fare parte di una Contrada ti condanna ad averci il cuore a fette. Ed è una condanna che devi ingollare perché fa parte del gioco. Tante volte. Fino a che il cuore che si ferma non sarà il tuo.

 

Ciao Massimo, ci si rivede ai Quattro Cantoni.

Lo so bene che non ci sarai. Ma io ti vedrò lo stesso.

Old Bicycle

“Selfi” contro “Ribellini”: la Guerra Incivile

Alcune premesse doverose prima di questo ennesimo post su un bellissimo evento sportivo che si è appena svolto nella mia città:

  • Non sono un appassionato di ciclismo
  • Non ho più una bicicletta da quando me la rubarono nel 1994
  • Se faccio alcune decine di chilometri duro fatica anche se sono in taxi e non guido io.

Chiarito che non sono di parte, posso spiegarvi perché ho sentito il bisogno di scrivere anche io un  post su la Strade Bianche: non sono un fan della bicicletta ma sono un appassionato di social e di antropologia culturale. E, non ultimo, voglio anche io bene a Siena.

Ho aspettato che si quietassero i rimbombi di quella che è stata una vera e propria guerra civile (anzi, incivile), fatta di post, like, commenti e condivisioni. Una battaglia che ha fatto l’Arbia, ma anche la Diana, la Tressa e i Bottini, colorati in rosso.

Una guerra combattuta tra due eserciti, entrambi con la Balzana sugli scudi: da una parte i Selfi, dall’altra i Ribellini.

I Selfi sono quelli che si autoimmortalano durante l’evento per dire che ci sono stati anche loro (o su una bicicletta a durar fatica, o a sostenere i ciclisti correndogli a fianco, o perché membri dello staffe, oppure perché fermi in fila a lamentarsi di una strada chiusa per alcune decine di minuti). I Selfi si autocompiacciono della loro presenza sul posto, meglio se con la bocca a culo di gallina.

Dall’altra parte dello scherno troviamo i Ribellini. I Ribellini sono quelli che sono contro. Contro a chi dura fatica su una bicicletta, contro a quelli che sostengono i ciclisti correndogli accanto, contro a chi ha organizzato, contro a chi premia, contro a chi viene premiato, contro a chi dice che va tutto bene, contro a chi dice che va tutto male, contro a chi ha bloccato le strade, contro a chi si lamenta di chi ha bloccato le strade, contro le strade, specialmente quelle bianche. Sono contro e si ribellano, ma lo fanno soltanto battendo le mani nel muso alle loro tastiere, come se la loro opinione fosse quella che può farci cambiare opinione. L’argomento prediletto dai Ribellini sono le “file”. Lo sappiamo: tira più un pelo di fila che un carro di buoi.

Ho visto Selfi e Ribellini darsele di santa ragione, offendersi, minacciarsi, trattarsi a pesci in faccia, prendere posizione e non spostarsi da lì di un millimetro. Fin da quando ero piccino, quando vedo due che litigano, mi viene d’istinto entrare nel mezzo per strigarli. Su Facebook questo non è fattibile. Le risse a volte coinvolgono decine di persone che entrano a commentare e se ti inserisci, rischi di essere malmenato da male parole. Il Ribellino medio cerca il pretesto per attaccare, il Selfo lo cerca per autocelebrarsi. Entrambi vogliono portare sul loro carroccio un prezioso bottino di guerra: il famigerato “consenso sociale” che si manifesta oggigiorno con il numero di like che si ricevono. Un tempo il consenso sociale era l’essere persone rispettabili, oggi è pubblicare contenuti condivisibili.  Ogni evento è buono per aumentare le divisioni tra persone che vivono gli stessi problemi, le stesse strade, le stesse opportunità. Le differenti opinioni non contano e non si rispettano: oggi conta il posizionamento. Il valore è dato dalla manifesta indisponibilità a spostarsi dall’opinione che gli altri (non importa se quelli che ci amano o quelli che ci odiano) si sono fatti di noi. E’ prevedibile con esattezza, ciò che quel politico o il suo oppositore, diranno. E ci viene naturale schierarci, anche solo con un “mi garba”, da una parte o dall’altra. Io ancora non so se sono un Selfo o un Ribellino. Io le opinioni cerco di costruirmele lasciandomi la libertà anche di cambiarle. A me la guerra mi fa cacare, specialmente quella incivile che non vuole prigionieri. Specialmente se si combatte usando come terreno di scontro la mia città.

Dove sembra che nemmeno la pietra sia, oramai, più serena.

happy family child baby girl in arms of his father

“Think dirty”: la regola dei malpensanti

Sono giorni grigi là fuori, giornate in cui i malpensanti si fregano le mani, salvo poi fregarsi con le proprie mani. Mi è venuta in mente una campagna che credo sia molto appropriata a questo momento in cui molti dovrebbero tornare all’asilo. E ripartire da lì.

Alcuni anni fa Hustler, la rivista erotica fondata da Larry Flynt per fare concorrenza al più noto magazine Playboy con immagini e articoli ancora più espliciti, lanciò una campagna geniale che mi fece molto riflettere e che fece il giro del mondo della comunicazione pubblicitaria.

Una multisoggetto, praticamente priva di qualsiasi intervento di grafica, con foto (nemmeno tanto belle) che raffiguravano normalissime situazioni di vita che, se guardate con l’occhio malizioso di chi conosceva il brand Hustler, potevano essere lette come situazioni ad alto contenuto erotico, o addirittura perverso. Il piccolo quadratino giallo in un angolo, che conteneva il titolo della campagna, diceva: “Hustler. Vedi il nome e pensi sporco.”

Geniale! Effettivamente anche io, guardando il pastore che trascinava la capretta o la ragazza che apriva la porta al ragazzo delle pizze, mi ero fatto in testa un film che avrei potuto pubblicare su Youporn. Provate però a stampare quelle foto e fatele vedere a un bambino, o a vostra nonna che, magari non sa che grazie ad Hustler gli oculisti di tutto il mondo hanno fatto i miliardi. Vedrete che vi diranno che si tratta semplicemente di una ragazza che sta ricevendo la pizza che aveva ordinato o di un pastore che fa il suo mestiere. Perché spesso la perversione risiede nel nostro modo di guardare le cose. E spesso, chi critica qualcosa bollandolo come “deviato” o “perverso”, è proprio lui l’albergo della devianza e della perversione.

“Pensare sporco” genera pensieri spazzatura. Teniamolo bene a mente nella vita di ogni giorno. Specialmente quando si parla di bambini, che sono quanto di più lontano ci possa essere dalla malizia e dalla morbosità.

Amen.

Ps. Ecco qui sotto i vari soggetti della campagna di Hustler

 

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L’immagine della testata è stata acquistata dall’archivio Getty Images.

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Il gusto di tirare la merda

Breve post rivolto a blogger locali dal giudizio più veloce del west e commentatori seriali compulsivi che rischiano di pestarla.

Aneddoto:

Una volta, mentre stavo viaggiando in treno verso Milano, mi capitó di incontrare un presidio dei Cobas del Latte. Al passaggio del treno iniziarono a sparare letame di vacca con gli idranti. Un bambino chiese alla mamma perchè ci piovesse addosso fango. Qualcuno fece notare al piccolo che quello non era esattamente fango. Una ragazza vomitò, per aggiungere una ciliegina su quella doccia non prevista e in omaggio con il biglietto di una corsa che faceva già segnare un pesante ritardo sull’orario di arrivo previsto. Molti dei passeggeri che viaggiavano con me, quando si erano messi a sedere su quel Frecciarossa erano dalla parte dei Cobas, qualcuno lo dichiarò pubblicamente (e anche io riconoscevo le loro buone ragioni) ma il fatto di essere stati ricoperti di sterco mentre stavamo viaggiando per lavoro, seppur dentro un treno con i finestrini chiusi, ci fece domandare che senso aveva tirare la merda a gente che non c’entrava niente con la loro sacrosanta protesta. Decidemmo che per protesta non avremmo bevuto piú latte. Io ho mantenuto la promessa per cinque anni. Nel frattempo mi sono dimenticato le  ragioni di quella protesta che ci concimò.

Morale:

anche se pensi di avere tutte le ragioni del mondo, tirare la merda senza guardare a chi la tiri, alla fine non conviene. Rischi di fare la fine del piccione e di finire in una tegamata. Perché il gusto di tirare la merda, alla fine ha sempre un gusto di merda.