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La caramella amara che non puoi sputare

Il dolore per la perdita di un amico è una caramella amara che non puoi sputare. Ci sono caramelle piccole e altre grandi come una pallina da ping pong, che non lasciano spazio a nessun altro sapore e che un dio pagano molto bastardo ha deciso di metterti in bocca, solo perché ne aveva voglia.
Una caramella di fiele, foderata di radicchio e impastata col cerume. Dura come un sasso.
Ti tocca tenerla lì, e tutto quello che provi a mettere in bocca, anche fosse miele, ti sembra amaro. E non c’è requie: giorno e notte hai l’amaro in bocca.
Ci sono alcuni che hanno la saliva più forte, forse più acida, e dopo un po’ di tempo, riescono ad ingoiarla. Altri che hanno una saliva più dolce e proprio non ce la fanno. Che vivono costantemente con la voglia di vomitarla. Ma quel dio bastardo ha deciso che deve restare lì.
E allora ci vuole pazienza. Che se non ce l’hai vorresti morire anche te.
E avresti voglia di masticarla, di romperla come fai con le caramelle di zucchero. Ma i tuoi denti sono denti che se schiacci forte si rompono. Io c’ho provato a romperla e ho perso tutti i molari. Allora ho cominciato a succhiarla, in silenzio, prendendola per sfinimento. Per farla ammorbidire. O almeno ci provo. Grattandole i bordi come il conte di Montecristo che, per uscire di galera ci provava con un cucchiaino. E a forza di succhiare cerco di isolare l’amaro dagli altri sapori che la vita mi propone. Vabbè, l’amaro prevale ma si comincia a risentire anche il salato, il frizzante, il piccante. Ci vuole tempo, non bisogna avere furia. Che via via, di caramelle amare più o meno grosse, ti toccherà risucchiarle. E se non ti abitui, ti dimentichi di quando eri un bambino e le caramelle che ti davano avevano solo un sapore dolce. Quello che le caramelle dovrebbero avere.

Siena, 1 giugno.

evento verdone 2

I Potenti, Quelli che vogliono diventare potenti e i Trombati

Il mio intervento su Potenti e affini in occasione del settantesimo anniversario dell’Operetta “Il Trionfo dell’Odore” scritta da Mario Verdone.

SIENA, 3 marzo 2015

Scusate, volevo andare a Braccio ma alla rotonda di Fontebecci c’era un ingorgo, sicché ho scritto tre paginette.

Perdonatemi le volgarità eventuali.

Per scrivere un’operetta non basta essere bravi a scrivere. Per scrivere un’operetta bisogna avere due caratteristiche: essere studenti ed essere goliardi. Essere studenti è abbastanza facile; la cosa difficile è l’altra, perché ci devi essere portato, un po’ di talento naturale ce lo devi avere. Quando
cominciai a fare le Feriae, il Principe di allora mi disse: “Te saresti quello bravo a scrivere? Ecco, domani ci si trova, porta una scena.
Ambientazione: far west”. Io secondo voi portai una scena? Noooo, portai tutto il primo atto. Lo scrissi in una notte, di corsa. E correvo, correvo, correvo…fino a quando non arrivai…alla lettura del mio capolavoro davanti agli anziani. C’ero io, il regista Carlino Castellani, il Principe Mao
Garosi, quattro o cinque pluribollati e l’aiuto regista: una figura epica, Giorgino il De Sanctis che mi guardava, come se fossi un marziano, con in bocca una sigaretta finissima che fumava senza mai sgrullare la cenere.
Inizio a leggere e, solo nel primo atto, metto 37 cambi di scena, compresa una vista aerea del villaggio Sioux (e ancora non avevano inventato i droni per tutti). Alzo gli occhi dal copione e vedo un Giorgino basito, che mi fissa dietro una coltre di fumo con la cenere che gli era caduta disperata sulla pancia. Mi guarda, mi lancia addosso un bestemmione e fa: “Tagliatella, ma te vuoi fare l’operetta o il cinema???”.
Del mio primo atto andò in scena solo il titolo: “Phicauntas”. Quello piacque.
Allora, come deve essere un’operetta per evitare le cartate dai dottori e dal pubblico? E di cosa deve parlare? Sono auspicabili i motti arguti e le battute costruite con intelligenza, tipo
“Sopra NOI capre la Banca campa, sotto UNA capra la banca crepa”.
Però ci sta che non faccia ridere, sapete, il pubblico è un po’ macchinoso.

Quindi se le battute difficili non vi riescono, saltuariamente è consentitoricorrere a doppi sensi, anche licenziosi, tipo: “Dov’é la principessa?” “Sire, la Principessa è sul pisello!”.
Oppure potete fare uso della gestualità corporea, tipo: “Con quante sei andato mentre eri in Erasmus?” (Agitando la mano come per dire “insomma”) “Sei???!!!” “No, quasi una!”
L’operetta che va in scena a maggio, viene scritta fin da settembre dell’anno prima, e passa una serie di vagli, di tagli e di revisioni fatti durante cene e libagioni con i più anziani. Durante la prima lettura c’è sempre uno che viene invitato per rappresentare lo spettatore medio (all’epoca mia si chiamava Provenzano); ecco, se ride lui vuol dire che il teatro riderà. Di solito la sua risata è questa (faccio la risata di Provenzano) e poi alla fine della risata, ti spiega anche la battuta…che hai scritto te.
Lo spettatore medio ride a delle cose di cui non riesci a darti una spiegazione, tipo: “Alabarda spazialeeee!!!” o “Sono il Paguro. Avvicino la testa al culo, quando ho pagura.“ Queste fecero ridere, ve lo giuro, ma non ho mai capito il perché.

Poi, quando vai in scena ci sono delle variabili umane impreviste tipo l’”attore che non ci mette mano” o il “goliardo anziano ingestibile”.
L’attore che non ci mette mano è quello che: o non impara il copione, oppure impara anche le parti che spiegano la parte. Mi ricordo di una volta in cui un mio paribollo, che per rispetto chiameremo con un nome di fantasia, Rotolone, imparò la sua battuta così: “Quanto prese all’esame? Diciotto. Diciotto coltellate gli piantò nel cuore. Guarda l’orologio ed esclama. E’
tardi. Esce di scena correndo.” Nooo Rotolo, quello tra parentesi non lo devi dire…..
Oppure il goliardo ingestibile. Era il ’97 e sul proscenio dovevo stare nascosto dentro un barile e uscire fuori alla fine di una scena di gruppo in cui recitavano studenti che avevano da 9 bolli in su. Tra loro c’era un goliardo che, per garantire la sua privacy, chiamerò con un nome generico, Pippo.
Quel pomeriggio Pippo aveva un pochino straviziato; tirando su lo sguardo lo vidi comparire da sopra alla botte che mi guardava chiedendomi: ”Che devo di?”. Io gli suggerii la sua battuta e lui: “Non ho capitooo!!!!” Cominciò a scuotere il barile rischiando di farmi rotolare sull’orchestra. Io uscii fuori dalla botte tipo Arlecchino con un “Eccomi qua” che strappò anche un applauso.
Il problema fu proseguire. Pippo fu portato fuori e a un vigile del fuoco di turno dietro le quinte disse: “Pompiere, sigaretta” E lui: “Guardi che sono qui proprio perché non si può fumare” “Accesa!” Il vigile del fuoco non se la sentì di contraddirlo, prese il proprio pacchetto, accese una sigaretta, e la porse a Pippo, che proseguì felice la sua serata al bar.
Di variabili impazzite ce ne sono diverse ma quando scrivi un’operetta devi essere un po’ coraggioso e tenere sempre presente che l’operetta deveprendere di mira e deridere chicchessia ma principalmente tre categorie di esseri umani: i potenti, quelli che vogliono diventare potenti e i trombati.
“I potenti” sono l’obiettivo principale, è ovvio che al Goliardo restino un pochino sulle palle. Sono quelli che possono NON FARTI FARE qualcosa che vorresti fare o che possono dirti COME lo devi fare:

Chi sono?

I professori che POSSONO decidere il tuo voto
i vigili e le guardie che POSSONO farti la multa,
i dottori polemici che POSSONO rovinarti una serata a bollore,
i medici che POSSONO leggere le tue analisi del sangue,
i dietologi (io li odio proprio) che POSSONO dirti quanto e soprattutto cosa mangiare e bere,
i banchieri che POSSONO decidere se avrai o non avrai il mutuo
il Rettore che PUO’ decidere come va la tua Università,
il Sindaco e gli assessori che POSSONO stabilire come va la tua Città,
i presidenti di qualsiasi cosa che POSSONO comandarti, metterti le tasse, cambiare le carte in tavola,
i preti e gli arcivescovi che POSSONO farti venire i sensi di colpa,
il Papa che PUO’ chiacchierare tutte le domeniche,
il Papa Emerito che PUO’ dire “sono stato Papa…e sono ancora vivo!!!”
e infine, più potente di tutti e per questo da prendere in giro più di tutti, la Morte, che PUO’ toglierti la parola quando gli pare.

Poi ci sono “quelli che sperano di diventare potenti” sembrano ganzissimi, ti promettono che domani ti alzerai bello, ricco e senza occhiaie, che il mondo sarà come lo vuoi te, che quando ci saranno loro vedrai che libidine.
E il problema è che ci credi! Chi sono? Oltre a Lucignolo e a tanti venditori di fumo, ci sono i lecchini e i lacchè, i portaborse, gli assistenti, i candidati a tutto, i giornalisti che non fanno le domande e tutti quelli che conoscete che per non rischiare di cascare strisciano.
Infine ci sono “i trombati” sono tutti gli “ex qualcosa”. Tutti, tranne l’Ex Sindaco di Firenze che va messo nella prima categoria.
Sono quelli che hanno toccato il fiocco dei calci in culo, magari l’hanno anche preso, ma mentre la giostra girava, gli è cascato di mano. Ecco, quelli sono pericolosi, perché continuano a rimuginarci. “Eppure l’avevo preso, potevo fare un altro giro a sbafo, accidenti a quello dietro che mi pintava, questo giro non vale, ora sento se mi rifanno montare…”. Queste sono le tre categorie che chi scrive un’operetta dovrebbe mettere sempre tra i personaggi. Non potete capire quanto, per un ragazzo di 20 anni sia bello scrivere per il teatro goliardico. In quel momento pensi che te nella vita non potrai mai diventare come qualcuno di quelli che metti alla berlina. E
questa è un’illusione meravigliosa.

La Goliardia è meravigliosa. E ha una mamma ancora più bella di lei. È una signora di una certa età ma è sempre discreta, una milfona, insomma. E si chiama Libertà. Piace a tutti eh, ma fa paura, mette soggezione. Perché come scrisse il grande Roby Ricci, la Libertà è un cavallo che scalpita. E per un Goliardo, che si diverte a prendersi gioco di potenti, aspiranti potenti e
trombati, quel cavallo continua a correre fino a che la Morte, la più potente tra i potenti, non decide che le tue battute le sono venute a noia.
Quello che possiamo fare è continuare a tramandarci, per fare in modo che ci sia sempre qualcuno dopo di te capace di far correre quel cavallo. Perché nessuno è eterno, nessuno viene risparmiato.

NEMINI PARCETUR.
GAUDEAMUS.

Foto di Mario Llorca. Per vedere i suoi lavori mariollorca.com

Evento verdone

Evento verdone

lapo-e-lopo

Lapo e Lopo a scuola

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi dice: anche stamani sei arrivato puntuale!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi dice: anche stamani, sei arrivato?

Lapo: Ogni mattina vado a scuola con la cartella piena di libri, con l’astuccio, i quaderni e la merenda!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e quando arrivo dico sempre: madonna….la cartella!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi dice: “Se avessi due o tre ragazzi come te!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi dice: “Se avessi due o tre ragazzi come te, sarei un’insegnante di sostegno!”

Lapo: Ogni mattina vado a scuola con il grembiule e il fiocco celeste.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola con il grembiule, il fiocco celeste e tre o quattro frittelle sparse…sul grembiule.

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e faccio colazione con Kinder fetta al latte!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e faccio colazione con Kinder fetta al latte! Lecco la carta del suo! 

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e prendo dieci!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e prendo dieci scapaccioni da quelli di quinta!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi chiede i sette Re di Roma.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e la maestra mi chiede i sette Re di Roma: però quando arrivo a Pisolo, si incazza sempre!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e i miei compagni puliscono la lavagna con la cimosa.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e i miei compagni puliscono la cimosa con me.

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e lui mi copia.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e io lo copio. In questo si va d’accordo!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e prendo otto.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e prendo Otto… per la coda. Otto è il gatto della bidella!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e salto l’ora di religione.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e salto due ore di italiano.

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e sul quaderno la maestra mi ci scrive “Visto!”

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e sul quaderno la maestra mi ci scrive “Vispo…per niente!” 

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e mi mettono nella squadra di calcio della scuola!

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e mi mettono nella squadra di calcio di un’altra scuola… qualsiasi!

Lapo: Ogni mattina vado a scuola, il Preside entra in classe, legge i miei voti e mi fa i complimenti

Lopo: Ogni mattina vado a scuola, il Preside entra in classe, legge i miei voti e senza fare complimenti li gioca alla schedina: 1, 2, 1, x, 2

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e sui miei libri mi prendo sempre delle note.

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e sul registro mi prendo sempre delle note.

Lapo: Ogni mattina vado a scuola e per colpa sua la maestra mi dice: “Domani vieni accompagnato dai genitori!”

Lopo: Ogni mattina vado a scuola e per colpa mia la maestra mi dice: “Domani vieni accompagnato dai genitori!”…Tiè, tanto so’ orfano!

Duetto tratto dallo spettacolo “Mattaglia, il Senso della Vita” (2009) di Roberto Ricci e Giampiero Cito (con una strizzata d’occhio a Giorgio Gaber).

L’immagine è una delle innumerevoli versioni della campagna Mac vs Pc.

roberto ricci

Roby è presente. Ancora.

Oggi sarebbe stato il compleanno di Roberto e mi piace ricordarlo così, con le parole che scrissi di getto quando, tre anni fa, la Nobile Contrada dell’Aquila decise di ricordare il suo figlio più bello, in una serata in Piazza Jacopo della Quercia in cui si ritrovarono più di mille persone.

“Per lavoro e per passione mi diverto a scomporre i molteplici significati delle parole di quella meravigliosa lingua che è l’italiano. Questo lo devo molto a Roberto Ricci che, quando avevo quattro anni mi dette una spinta sul palco del Teatro dei Rinnovati in una delle primissime edizioni di Ondeon. Lui, che di anni ne aveva diciotto, aveva scritto, con la sorella Patrizia, un delizioso sketch dove dei bambini armati di martello, distruggevano il mondo degli adulti per ricostruirlo a misura loro. Da quel momento per me e per la mia generazione di contradaioli dell’Aquila, salire e scendere dal palcoscenico è stato un appuntamento costante. E con noi c’è sempre stato Roberto, il cui strumento, a differenza di ciò che tutti credono, non era la chitarra ma la testa. Una testa capace di raggiungere picchi altissimi di poesia e contemporaneamente di giocherellare con i pertugi anche triviali, del nostro vocabolario. A me questa “escursione termica” tra il Roby alto e il Roby basso, mi aveva fatto innamorare di lui come di un fratello maggiore al quale tendere e che non vuoi deludere mai. Poi ci sono stati gli anni delle Feriae Matricularum. E lui, costantemente antitetico, era riuscito ad imporre un nuovo stile alla musica delle operette con canzoni memorabili fatte unendo brani di provenienze tra le più variegate.
Il Riccino è stato sempre con me, che ero consapevole che dovevo annullare la possessività nei suoi confronti, perché, come una “Bocca di Rosa” della musica, si concedeva a molti e spesso. Di Roby conveniva non essere gelosi. L’ho capito bene nei giorni di dolore che sono seguiti alla sua uscita di scena. A salutarlo c’erano, oltre a chi ci doveva essere, persone di ogni età, ex sindaci, ex rettori, studenti e suonatori, docenti e scansafatiche, bestemmiatori e sacerdoti, antiche signore e ragazzine, Quel giorno Siena era lì.
Sono stati mesi cupi e la ferita non ha ancora fatto la crosta, dopo più di tre anni la voglia è quella di cercare di girare pagina. Questo non vuol dire dimenticare, al contrario, giocando ancora con le parole, vuol dire capire che Roby è presente. Presente perché è ancora fortemente qui, in tutte le innumerevoli tracce di sé che ha disseminato per Siena. Presente perché la vita non si vive nel passato e il futuro, nel momento in cui si palesa, diventa comunque “presente”. Presente perché ci siamo tutti noi, geneticamente modificati dall’averlo vissuto come fratello, come amico, come figlio, come uomo da abbracciare a cucchiaio, come babbo, come compagno di classe o di bisbocce, come vicino di palco o compagnia notturna.
Non ho la fortuna di credere ad un “dopo” dove ci si ritrova e ci si riabbraccia. Ci spero tanto ma non ci credo. Per questo mi basta credere che il mio grande amico sia ancora qui. Fortemente presente.”

Auguri Mostro.

il senso della vita

L’ultima volta che ho fatto sesso (figuriamoci concepire)

In tempi non sospetti, molto prima della grande invenzione del Fertility Day, io e Roby salimmo su un minuscolo palcoscenico vestiti da spermatozoi. Lui faceva Lapo, fighetta belloccio con l’erre moscia. Io ero Lopo, un povero disgraziato che aveva una dislessia che lo faceva parlare come Duffy Duck. Di solito il pubblico rideva. E noi avevamo capito già allora che per concepire bisogna prima “compicciare”. E senza fare marcia indietro.

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso mi hanno fatto gli applausi.

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso ho pagato in lire.

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso eravamo in tre.

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso, lo giuro, ero da solo.

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso c’ho messo tre ore.

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso c’ho messo tre ore. A convincerla!

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso sono diventato il re della pecorina.

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso sono diventato il re del pecorino. Sardo.

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso per durare di più ho pensato alla fame nel mondo.

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso ho pensato che avevo fame. E ho svuotato il frigorifero.

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso lei mi ha detto “la prossima volta che vieni, dimmelo e ti faccio trovare champagne e caviale”

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso lei mi ha detto “la prossima volta che vieni, dimmelo almeno mi levo le mutande”

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso aveva vinto la Lupa.

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso aveva vinto l’Aquila. Con Bastiano.

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso mi è costato una bella sudata.

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso mi è costato 100 euro ogni quarto d’ora. Quindi 20 euro.

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso mi ha detto: “Come te non c’è nessuno!”

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso mi ha detto: “Come te non c’è nessuno! Se dio vuole”

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso ho pensato: “Che fisico che ho!”

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso ho pensato: “Che fisico di merda che ho!”

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso le ho detto: “Non sei sempre stata così sciolta, vero?”

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso le ho detto: “Non sei sempre stata una donna, vero?”

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso le ho detto: “Ti sei depilata?”

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso le ho detto: “Ti sei fatta la barba?”

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso ho pensato: “Dio, questa è un mostro di bravura!”

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso ho pensato: “Dio, questa è un mostro!” E basta.

Lapo: L’ultima volta che ho fatto sesso ho fatto un po’ di conti e sono giunto alla conclusione che le donne che ho avuto sono tante come i granelli di una spiaggia.

Lopo: L’ultima volta che ho fatto sesso ho fatto un po’ di conti e sono giunto alla conclusione che le donne che ho avuto sono tante come le dita di una mano di un addetto alla sega circolare.

Duetto tratto dallo spettacolo “Mattaglia, il Senso della Vita” (2009) di Roberto Ricci e Giampiero Cito (con una strizzata d’occhio a Giorgio Gaber).

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L’immagine della testata è un dettaglio della locandina dello spettacolo realizzata da Benedetto Cristofani nel 2009.

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10 canzoni di Siena raccontate in 10 tweet

10 canzoni di Siena raccontate in 10 tweet
ovvero
L’esigenza della sintesi

– Nell’erbetta ho trovato una rizzacazzi e mi s’è levata di culo.
– 16 agosto. Sante decapitato. Francia merda.
– Maremma che terra impervia! Uccelli caput; persone care idem.
– Serenata da tre ore. Idolo mio, ti decidi ad aprire?
– Chi ti ha fatto quegli occhioni? I miei; però ti avverto, sono vergine e resto così!
– AAA: lasciato dalla citta, cedesi migliore seggiolina.
– Cacciatore seduce e abbandona pastorella.
– Fare il bovaro è ganzo: si tromba!
– Lo spazzacamino non usò precauzioni. E ora?
– Sono una rondine acciaccata; lasciatemi crepare in pace.

Dedicato a Roby dal Taglia
(13 settembre 2015)

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Roby, il Giullare di Siena (ricordo di un amico)

La dannazione di chi, come me, è figlio unico, è quella di passare la vita a cercare dei fratelli. Il vantaggio è quello che, in questo caso, puoi permetterti di scegliere. Pensate ad Abele quanto avrebbe preferito essere figlio unico o la nostra senesissima Santa Caterina, 25esima di 26, tra fratelli e sorelle. Molto meglio stare tra i lebbrosi che in una casa coi letti a castello a dieci piani, direi.

Io nel corso della mia vita, di fratelli e sorelle, ne ho trovati alcuni. E li ho scelti con attenzione.

Uno di questi si chiamava Roberto Ricci. Ma tutti lo chiamavano Roby. Per un bel po’ siamo stati dei gemelli diversi. Diversi per età, lui era molto più grande e io ero quello più adulto. Diversi per talento: lui aveva una voce che copriva un’estensione da Mina a Mario Biondi, io invece mi diverto a giocherellare con le parole, ma quelle scritte. Eravamo diversi anche per aspetto fisico: lui alto, bello e di gentile aspetto, io no.

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Quando sono nato, lui aveva già l’età del motorino ma progressivamente ci siamo ritrovati ad essere coetanei. Non so se ho corso troppo io o se si è fermato lui ad aspettarmi. Il fatto è che, in una città come la nostra, è possibile anche questo. A Siena coetanei si diventa. Basta condividere qualcosa di grande come le passioni. Per noi le passioni comuni erano la Contrada (l’Aquila), le Feriae Matriculaum e la voglia di fare divertire gli altri.

Roby aveva una caratteristica che nessuno in questa città riesce ad avere. Era un giullare. A chi come me per passione e anche per lavoro, racconta storie, è noto che negli archetipi della narrazione esistono molte figure che creano un percorso che è possibile ritrovare in ogni storia, dall’Odissea al Signore degli Anelli, passando per Pinocchio. Si chiama “Il viaggio dell’Eroe” e può essere raffigurato come un cerchio. Anche la nostra vita funziona e si sviluppa più o meno così. Si parte dal primo ruolo: “il bambino innocente”, e dopo una serie di prove, e passando di ruolo in ruolo (l’orfano, il guerriero, l’esploratore, ecc.), si arriva alla matura padronanza di se stessi nel ruolo di “re”. Molti si fermano qui e vedono in quel punto di arrivo un vero e proprio successo: l’età della pensione di chi ha già dato tutto e ora può governare il tempo che gli resta da vivere. Poi ci sono alcuni che vanno oltre. E qui c’è la dodicesima figura, il dodicesimo archetipo narrativo: “il Matto”, “il Giullare”. Quello che la società tende a spingere il più lontano possibile, ma che il Re vuole sempre vicino a sé perché gli ricorda come si dovrebbe vivere davvero.

Se si disegna il viaggio dell’eroe come un cerchio che parte dall’innocenza dell’infante e termina nella padronanza di se stessi del Re, il Giullare si posiziona proprio lì, tra il Re e il Bambino. La consapevolezza e l’innocenza che si mescolano come nitro e glicerina, pronti ad esplodere.

E Roby si era, non so quanto scientemente, posizionato proprio lì. Il suo cappello a sonagli erano la sua chitarra e la sua voce ma i meccanismi giullareschi li aveva reinterpretati a suo modo e li padroneggiava. Non c’è un senese, o uno studente fuori sede che abbia vissuto a Siena tra il 1980 e il 2012 che non abbia ballato o riso o che non abbia sentito il grido di incitamento “a bolloreeeee!!!”.

Il “Menestrello” che dalla radio derideva in rima presidenti e giocatori del Siena, o il “Chicchero” (il termine senese per dire appunto “Giullare”) che si prendeva gioco del Sindaco, del Rettore, o dell’Arcirozzo di turno che lo invitavano a suonare ai loro pranzi e alle loro cene.

Roby è stato un Rigoletto senza gobba, che veniva chiamato in virtù del proprio talento da chi da lui temeva (e contemporaneamente desiderava) farsi sbeffeggiare. Mi ricordo passeggiate per il Corso dove si inchinava a signore ingioiellate e, con le movenze di un Arlecchino, le apostrofava con “Signora Taldeitali, anche oggi sembra un lampadario”, e giù risate. Oppure, al decrepito professorone: “Dottor Tizio, si rizza sempre? Non mi faccia stare in pensiero”. In rarissimi casi ho visto qualcuno risentirsi o offendersi, al massimo provavano invano a zittirlo con un: “Roby!!!”. Anche nelle commedie di Shakespeare, chi non veniva preso di mira dal Saltimbanco, si risentiva, perché non si sentiva importante al pari degli altri.

Roberto è forse la migliore espressione di questa polverosa città borghese, con il cappotto color cammello che odora di naftalina. Lui li chiamava “gli impagliati”. La migliore espressione perché sapeva che (citando una canzone della sua Operetta) “la libertà è un cavallo che scalpita in ogni cuore, anche in quello più timido”. E la sua manifestazione di libertà è stata quella di scegliere se diventare un divo che fugge via da qui, o un giullare che resta.

Alla stessa distanza dai potenti come dai bambini. In perfetto equilibrio tra il potere e l’innocenza. E forse è proprio per questo che, tra le migliaia di persone che lo hanno pianto il giorno del suo funerale, c’erano Sindaci, Rettori, Arcirozzi, Studenti, i suoi amici fraterni e tanti, tanti bambini. E ogni lacrima aveva lo stesso sapore. Quello del dolore di aver perduto per sempre l’unico Giullare di Siena.