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Torre del Mangia

Se crollasse la Torre del Mangia

Se una notte, prima di andare a dormire, noi che si abita in centro a Siena, si sentisse un boato e se, correndo a vedere quello che è accaduto, si scoprisse che è venuta giù d’un tratto la Torre del Mangia, i telefoni si paralizzerebbero. Ognuno chiamerebbe i propri cari come quando muore all’improvviso un parente. Si correrebbe tutti in pigiama alla Costarella per vedere se è vero, con le mani nei capelli. Lì si troverebbe sicuramente qualcuno che si conosce bene e qualcuno, che anche se si conosce poco, per quella sera diventerebbe uno con cui dialoghi perché devi condividere qualcosa che ti fa stare male. Ci sarebbe anche di sicuro qualcuno che sghignazza, perché lui l’aveva predetto che con quel capoccione di pietra prima o poi sarebbe venuta giù. Ci sarebbe chi piange e chi bestemmia, alcuni addirittura piangerebbero bestemmiando, altri starebbero zitti accoccolati al muro, altri ancora si abbraccerebbero singhiozzando. Si tornerebbe a letto all’alba aspettando il giorno dopo per vedere se viene giù anche il Facciatone, o San Domenico, non riuscendo a prendere sonno con gli occhi pieni di paura.
Poi il giorno dopo non crollerebbe nient’altro e la paura di tutti diventerebbero 55.000 voci diverse che vogliono dire a loro dividendosi in gruppetti.

Ci sarebbero i “colpevolisti”: quelli che devono capire a chi dare la colpa, perché se la Torre è crollata dovrà pur essere colpa di qualcuno. Tra questi si nasconderebbero abilmente i “cavalcatori di disgrazie” che punterebbero il dito su qualcuno per un tornaconto preciso e personale: “Secondo me la colpa è del custode che ha sbatacchiato la porta, lo conosco bene, è quello che tromba la mì moglie…”, oppure “è colpa del Comune, con tutti quei turisti appoggiati al Palazzo a bivaccare”, o ancora “è colpa di chi faceva le tre a bere in Piazza, con quelle fiatate d’alcol la Torre sbarellava!”.
Poi ci sarebbero gli “èandatacosisti”, quelli che, di fronte all’evidenza, si stringerebbero tra le spalle dicendo: “che ci vuoi fare, è andata così”, continuando a macinare la loro vita come il criceto dentro una ruota. Tristi, ma ormai è andata così.
Tra questi ci sarebbe una nicchia di “buonvisoacattivogiuochisti” che guarderebbero il Palazzo del Comune, ormai senza Torre e Cappella e direbbero, sottovoce, per non farsi sentire bene, “tutto sommato, così il Palazzo è più simmetrico”.

Ci sarebbero gli “sciacalli”, quelli che cercherebbero di lucrare sul dramma vendendo calcinacci e i “tordi”, quelli che comprerebbero un pezzo di mattone perché almeno si porterebbero un pezzetto di Torre del Mangia in Camera.
Ci sarebbero i “romantici”, quelli che in gruppo, meglio se dopo qualche gotto, si troverebbero nottetempo a guardare il vuoto dove prima svettava la Torre, cantando cori a quattro o cinque voci con le lacrime agli occhi.
Ci sarebbero i “guardoni” quelli che verrebbero a Siena per farsi un selfie con la Piazza mutilata.
Ci sarebbero tanti che starebbero a giornata a litigare per difendere la propria versione dei fatti.
Ci sarebbero quelli che si rimboccano le maniche per provare a ritirarla su, quella Torre, e quelli che criticano quelli che si rimboccano le maniche.
Ci sarebbe quello che ha capito esattamente come si sono svolti i fatti, ne è proprio certo, e che ce lo ripete ogni giorno dal suo blog.
Ci sarebbe qualcuno che è rimasto schiacciato sotto la Torre e che verrà ricordato soltanto il giorno dell’anniversario.

Poi ci sarei io, che sarei contemporaneamente: “colpevolista” e “èandatacosiista”, “romantico” e con le maniche rimboccate a non fare niente e a mettere mi piace il giorno dell’anniversario della tragedia. Ma con la stessa identica convinzione di ognuno degli altri, di essere quello che ama Siena più di tutti.

cuore

Il cuore a fette

Ieri Massimo ci ha rimessi tutti in fila. Come faceva per i compleanni di Marchino a casa sua. Quel rompiscatole che ti faceva alzare a raccattare lo stecco del gelato che avevi tirato nel ghiaino in Società; quel babbo che se non era il tuo babbo era solo un caso, ieri ci ha rimessi tutti in fila. Senza dire niente, lui che chiacchierava poco ma che c’era sempre, da sempre. Non è stato facile per niente. Perché appartenere ad una Contrada non è mica come fare parte di un gruppetto di amici e basta. E’ appartenere a un popolo che, come tutti i popoli: festeggia, si scontra e si divide. Ma in certi casi torna insieme a guardarsi negli occhi lucidi. Te sei lì, fuori da quella chiesa che osservi tutti, sapendo benissimo chi è che fino a ieri nemmeno si parlava e oggi, per rispetto, si dice “ciao”. Senza falsi sorrisi, sia chiaro, che tanto oggi di sorridere non c’è bisogno. Quando esce di scena un grande contradaiolo non c’è bisogno di darsi l’appuntamento, tanto trovi tutti lì. Perché quando tiri la riga in fondo al foglio, e la bilancia pende dalla parte della grandezza, anche chi fino a ieri non ti considerava, si toglie il cappello.

Fare parte di una Contrada ti condanna ad averci il cuore a fette. Ed è una condanna che devi ingollare perché fa parte del gioco. Tante volte. Fino a che il cuore che si ferma non sarà il tuo.

 

Ciao Massimo, ci si rivede ai Quattro Cantoni.

Lo so bene che non ci sarai. Ma io ti vedrò lo stesso.

Carlino Carlo castellani

Carlino, il Re delle Linguacce

Per quanto possa essere bravo a recitare, un goliardo vero la parte del goliardo non la recita mai. Lo è e basta, fino all’ultimo. Carlo Castellani detto Carlino, la Goliardia ce l’aveva dentro con tutti i suoi colori: la comicità, la buffezza, l’ironia, il romanticismo, il sarcasmo, il cinismo, il gusto per la risata facilissima e per quella altamente sofisticata, la modernità e il classicismo, il rock, il rap, il jazz e lo swing, il buon gusto e il disgusto.
Una persona composta da sfaccettature così antitetiche che anche i suoi incisivi andavano uno da una parte e uno dall’altra.

Se è stato il tuo regista non puoi non ricordare il ritorno a casa dopo i ritrovi a scrivere: mentre ti toglievi il maglione per andare a letto, sentivi l’odore di un incendio in tabaccheria. Me non puoi dimenticare le risate che si facevano a vederlo spiegarti tutti i personaggi, fatti da lui che aveva una mimica da saltimbanco della commedia dell’arte. Totò, Dario Fo e Crozza messi insieme ma senza la spocchia di un premio Nobel o di un attore strapagato.

Quando andò in pensione pubblicò una foto su Facebook mentre timbrava il suo ultimo cartellino in mutande: era la sua parodia di quei furbetti che lo facevano a Sanremo senza scherzare.
Lo trovai alcuni giorni dopo e mi disse: “Te lo immagini, ora mi danno lo stipendio per non fare una sega…”
La sua nuova condizione di pensionato non lo convinceva mica tanto. Piuttosto che invecchiare è meglio perfino andare a lavoro, pensa un po’.
Per uno che ha macinato serate a fare tardi una dietro l’altra, come fossero sigarette, dover smettere di fumare è un bel contrappasso.

Lo abbiamo brontolato quando è venuto a vedere le prove dell’ultima operetta di quei rincoglioniti di dottori. Ha dato due boccate e qualcuno, saggiamente, gli ha detto: “O Carlino, ma allora non ti vuoi rassegnare a non morì…”
Lui ha fatto una risata, ha spento la sigaretta e ha cambiato discorso: “Fatemi vedè questa scena, vai…”
Quando muore un goliardo non dovete piangere per lui. Se era un goliardo, la Vita l’ha rigirata come un calzino. E se l’è goduta boccata dopo boccata. Semmai piangete per voi stessi che lo avete perso.
“O Carlino, dai retta, come hai fatto hai fatto bene!”.

Grazie per tutte le linguacce che ci hai lasciato in eredità.

Tuo, Tagliatella

PS. Un grande abbraccio a Martino

Wild horse amongst cypress trees

La Brenna, il Trombone, il Cavallo da Purga

Per la maggior parte delle persone nel mondo, un cavallo è un cavallo e basta. Per noi senesi un cavallo può essere una benedizione o una sciagura. E’ per questo che da noi non c’è un modo solo per chiamarlo. Un po’ come accade con la neve per gli Eschimesi.

La maggior parte dei Senesi ha un soprannome. Come in ogni piccola città, dove più o meno tutti si conoscono, una caratteristica fisica o un aneddoto del passato diventano un appellativo che rimane incollato addosso alla persona per tutta la vita. Anche i cavalli da Palio non escono indenni da questa pratica.

Esistono, infatti, attribuiti ai cavalli, dei nomignoli che, oltre al nome proprio, ne contraddistinguono le caratteristiche. Sia quelle fisiche, sia quelle legate ad una più o meno probabile speranza di vincere il Palio.

Oltre alla filastrocca popolare che individuerebbe la potenza e le qualità di un cavallo (detto “Balzano” per la somiglianza con lo stemma di Siena per metà bianco e per metà nero) dalla pigmentazione bianca sulle zampe, ci sono svariate categorie di cavalli da Palio: ad ognuna di esse i Senesi attribuiscono uno dei seguenti soprannomi:

La Brenna: è un termine che indica un cavallo con scarse probabilità di vincere. “Pare infatti che derivi da un’antica voce francese braine o baraine che significa cavalla sterile…si può dire che una brenna ha le stesse probabilità di vincere il Palio di quante ne abbia una persona sterile di avere un figlio” (Alessandro Falassi e Alan Dundes; La Terra in Piazza 1975). Bisogna infatti ricordare l’associazione simbolica tra la vittoria del Palio e la nascita di un bambino. La Brenna è quella che ti fa uscire di Piazza a testa bassa ma che, in alcuni rarissimi casi, può ribaltare le previsioni. “Attenti alle sorprese”.

Il Trombone: è il cavallo potente che tutti sognano di avere. Il termine “trombone” nel vernacolo senese indica il pugno dato in pieno viso. Avere in sorte un trombone equivale a fare male alle altre Contrade con un campione che è al massimo delle sue potenzialità. Però, se poi va male, il trombone lo prendi in faccia te…

Il Bombolone: è un sinonimo di Trombone anche se ha una derivazione etimologica diversa. La “bomba” è la leggendaria “mistura segreta” che veniva somministrata ai cavalli prima della corsa. Una miscela esplosiva da provocare una deflagrazione di energie e di felicità per la vittoria. Il bombolone è anche il dolce che i Senesi mangiano per tradizione la mattina delle Prove di Notte che si svolgono due giorni prima dell’inizio del Palio. Un dolce estremamente calorico e zeppo di crema. Una cosa piacevole da gustare come sarebbe piacevole vedersi assegnare un cavallo potente

Il Marcione: è un cavallo in pessime condizioni fisiche che di solito viene scartato durante la previsita e che quindi raramente prende parte al Palio.

Il Cavallo Nòvo: è un esordiente. Non ha mai corso in Piazza e quindi è un’incognita totale. Ci sono gli esperti che ti sapranno dare tutte le delucidazioni perché l’hanno visto correre in provincia e a loro potrai appoggiare le tue speranze. Anche se, si sa, “Monticiano non è Piazza del Campo”.

Il Cavallo da Purga: è un buon cavallo ma con quello è molto difficile vincere. Al Palio si purgano tutti quelli che non riescono a vincere ma, in modo particolare, chi ha le maggiori chances di vittoria e non la raggiunge. Il fatto che un cavallo sia “da purga” può dipendere dal fatto che non è pronto al momento della partenza, dalla sua mancanza di precisione nell’impostare le curve o per il fatto che è difficile rimanervi in groppa. Di solito un cavallo da purga ha corso molti Palii ma non ne ha mai vinto uno.

Come avviene per le persone, un cavallo che si guadagna un soprannome rimane per sempre categorizzato con esso.
Così Figaro, cavallo potente che ha corso molti Palii, è rimasto etichettato come “cavallo da purga” anche dopo aver vinto la carriera del 16 agosto 1988. Dio gliene renda merito.Pytheos e Urbino, cavallo scartati per manifesta superiorità, sono sempre stati considerati dei “tromboni”, mentre Ogiva e Fenosu, cavalli ai quali nessuno dava un grosso credito, nonostante la vittoria all’esordio sul tufo non sono stati mai ripresentati perché non ritenuti idonei alla Piazza, cioè delle “brenne”

Può apparire strano che si parli di animali allo stesso modo di come ci si comporta con gli esseri umani. Questo è però il risultato di un mutamento sociale che a Siena trova la sua massima espressione e il fulcro di un grande dibattito. A Siena i cavalli vengono trattati come persone. E come noi anche loro hanno un soprannome.

Elogio della Bestemmia alla Toscana

Molto prima di “uscire a riveder le stelle” del Paradiso su RAI Uno, Benigni fu Cioni Mario: l’esempio forse più alto della poetica comica toscana insieme agli schiaffi alla stazione di Monicelli e a “dammi un bacino” di Nuti.
Gli amici burloni di Cioni Mario gli fanno uno scherzo: gli dicono che gli è morta la mamma. Che vuoi che sia.
Mario, zotico di un paese toscano non baciato dai flussi del turismo mordi un cono e scappa, con chi se la prende? Con gli amici? No. Se la prende con Nostro Signore o, quantomeno, con una sua parente stretta. Il regista Bertolucci lo inquadra con un carrello che lo segue di lato. Nel suo incedere per una stradina di campagna, snocciola una serie infinita di improperi che, visti di filato, ancora oggi non sembra possibile possano essere finiti dentro lo schermo di un cinema. Capolavoro.
Ma quello che molti non toscani stentano a capire è che quella sequenza non è comicità grottesca, è puro neorealismo.
La bestemmia in Toscana va scritta con la maiuscola perché la Bestemmia, in Toscana, non ha soltanto il valore dell’imprecazione. In Toscana, la Bestemmia è punteggiatura. E’ creatività. E’ perfino buona educazione.
“Vieni anche te stasera con noi?” “Certo, Dio #*+#!”
E’ partecipazione, è senso di appartenenza.
Ho visto anziani che si rivolgevano ad un tabernacolo dicendo, come se parlassero ad un condomino fastidioso: “Io non ce l’ho mica con te! Io ce l’ho con chi ti prega!”
Oppure il vecchio mezzadro che abitava vicino alla mia casa di campagna che, in piena era berlusconiana, aveva sostituito il nome di Dio con quello di Silvio, per potersi permettere di nominarlo invano senza grossi sensi di colpa. Vista la veneranda età non si sa mai. E se poi te la fa riscontare?
A Siena la Bestemmia si chiama “moccolo”. Mi sono sempre chiesto perché e alla fine mi sono dato una spiegazione: è perché quando ti scappa non c’è modo di trattenerla, come uno starnuto esplosivo con ciò che ne consegue. Altri dicono che il significato è l’antitesi del pio che si inginocchia davanti ad un altare con la candela accesa (il moccolo, appunto).
Ma la cosa più bella è quando sei amico di una persona devota, ti scappa lo starnuto e moccoli perché non ne puoi fare a meno. Quando ci vuole ci vuole. Poi ti rendi conto che con te c’è quell’anima pura che potrebbe essersi offesa e gli chiedi scusa, magari aggiungendo un altro moccolo, così senza volerlo. E più vai avanti e più peggiori la situazione fino a che non allarghi le braccia e spari il moccolo risolutivo che mette il punto in fondo al discorso.
Un giorno da un vinaio entrò una bella ragazza del nord Italia. Di certo non era veneta, altrimenti avrebbe capito. All’ennesimo improperio degli avventori si avvicinò all’oste e gli chiese: “Ma perché voi toscani bestemmiate così tanto?”
L’oste che stava asciugando un gottino con lo strofinaccio le puntò le palle degli occhi e dalle labbra violacee disse: “Signorina, forse è perché noi ci si crede.”

L’immagine è una foto del grande attore toscano Carlo Monni scattata da Niko Giovanni Coniglio

Aquila 1928

Avanti un altro

Vi svelo il finale: non ci rimanete male, i ragazzi che vedete nella foto sono tutti morti.

Alcuni anni fa, insieme a un gruppo di amici che in quel momento rivestiva il ruolo di Commissione Cultura della mia Contrada, pensammo di raccogliere in un libro molte foto dell’ultimo secolo, andando a scovarle nei cassetti dei nostri contradaioli. Una delle più belle per me è quella che vedete. Non perché sia tecnicamente perfetta dal punto di vista fotografico e quella ricolorazione fatta col pennarello giallo la rende quasi ridicola; ma perché in quei volti ci ho rivisto i ragazzi che anche oggi si vestono in comparsa e mi ha ricordato quel passaggio de “L’attimo fuggente” in cui il mitico Professore interpretato da Robin Williams fa capire ai ragazzi che tutti noi, alla fine, siamo cibo per i vermi.

Tra quei volti ne ho riconosciuti tre: il primo a sinistra è Piero Petreni, vecchio e autorevole alfiere di Piazza. All’epoca della foto Piero lavorava come ragazzo di bottega dal mio bisnonno Ettore (lui era dell’Onda) e fu quello che andò a fare la spia al suo datore di lavoro perché aveva scoperto che il più piccolo dei suoi quattro figli (mio Nonno Nanni), da tre mesi preferiva andare a giocare a pallone piuttosto che frequentare la quarta elementare. Ettore, che era da poco rimasto vedovo, vide bene di chiudere in camera Nanni, che da poco era rimasto orfano, e tenercelo per tre mesi. All’epoca non esisteva Telefono Azzurro, evidentemente. Piero “lo spione” divenne come era logico, il nemico numero uno di Nanni. Poi nel mezzo ci fu la vita e mi immagino che trovarono il modo di diventare grandi amici perché la sera del 16 agosto 1988, a vittoria di Palio, li vidi abbracciarsi e piangere come bambini in mezzo a Costalarga. Il mio Nonno, anche se ancora giovane, era già praticamente impossibilitato a camminare a causa di una malattia ma trovò ugualmente le forze per arrivare in Contrada prima che arrivassimo noi con il Paio vinto. Se ne andarono via nel giro di pochi anni tutti e due e chissà se Nanni avrà trovato il modo di fargli pagare quella infame spiata.
Quello a sinistra del Duce è Vasco, il maggiore dei fratelli del mi’ Nonno. Faceva il pittore e restaurava i dipinti della Scuola Senese alla Pinacoteca, di lui è impressionante la somiglianza con suo figlio Sandro. Il penultimo a destra è invece Carlo, l’altro fratello del mio Nonno (manca Mario, sordo, che fece l’economo per molti anni). Carlo fu barbaresco e tamburino di Piazza. Gli altri non li riconosco, forse alcuni di loro non erano neppure dell’Aquila. Ma la cosa più bella di questa foto è che la vita è uno tsunami che ti travolge e ti spazza via, anche se sei grande e grosso da poterti vestire da Duce.
Eppure in nessuno dei loro occhi c’è il minimo riferimento alla morte. Probabilmente si stavano domandando chi avrebbe vinto il Palio; e basta.

Anche noi passeremo come un’ondata e forse qualcuno colorerà la nostra foto col pennarello senza sapere come ci chiamavamo. Ma forse qualcuno si ricorderà di noi e se avremo fatto qualcosa di meschino come fare la spia che è costata ad un amico tre mesi d clausura, ci sarà perdonato. Chissà se toccherà anche a noi abbracciare un vecchio coetaneo in Costalarga prima che qualcuno ci dica: “Avanti un altro”. Chissà se ce lo saremo meritati. Chissà se saremo volti riconosciuti oppure invisibili. Dipende da noi.

La foto risale al 1928 e fa parte delle foto raccolte per la pubblicazione “Un secolo di Aquila” realizzata nel 2012 dalla Nobile Contrada dell’Aquila.

evento verdone 2

I Potenti, Quelli che vogliono diventare potenti e i Trombati

Il mio intervento su Potenti e affini in occasione del settantesimo anniversario dell’Operetta “Il Trionfo dell’Odore” scritta da Mario Verdone.

SIENA, 3 marzo 2015

Scusate, volevo andare a Braccio ma alla rotonda di Fontebecci c’era un ingorgo, sicché ho scritto tre paginette.

Perdonatemi le volgarità eventuali.

Per scrivere un’operetta non basta essere bravi a scrivere. Per scrivere un’operetta bisogna avere due caratteristiche: essere studenti ed essere goliardi. Essere studenti è abbastanza facile; la cosa difficile è l’altra, perché ci devi essere portato, un po’ di talento naturale ce lo devi avere. Quando
cominciai a fare le Feriae, il Principe di allora mi disse: “Te saresti quello bravo a scrivere? Ecco, domani ci si trova, porta una scena.
Ambientazione: far west”. Io secondo voi portai una scena? Noooo, portai tutto il primo atto. Lo scrissi in una notte, di corsa. E correvo, correvo, correvo…fino a quando non arrivai…alla lettura del mio capolavoro davanti agli anziani. C’ero io, il regista Carlino Castellani, il Principe Mao
Garosi, quattro o cinque pluribollati e l’aiuto regista: una figura epica, Giorgino il De Sanctis che mi guardava, come se fossi un marziano, con in bocca una sigaretta finissima che fumava senza mai sgrullare la cenere.
Inizio a leggere e, solo nel primo atto, metto 37 cambi di scena, compresa una vista aerea del villaggio Sioux (e ancora non avevano inventato i droni per tutti). Alzo gli occhi dal copione e vedo un Giorgino basito, che mi fissa dietro una coltre di fumo con la cenere che gli era caduta disperata sulla pancia. Mi guarda, mi lancia addosso un bestemmione e fa: “Tagliatella, ma te vuoi fare l’operetta o il cinema???”.
Del mio primo atto andò in scena solo il titolo: “Phicauntas”. Quello piacque.
Allora, come deve essere un’operetta per evitare le cartate dai dottori e dal pubblico? E di cosa deve parlare? Sono auspicabili i motti arguti e le battute costruite con intelligenza, tipo
“Sopra NOI capre la Banca campa, sotto UNA capra la banca crepa”.
Però ci sta che non faccia ridere, sapete, il pubblico è un po’ macchinoso.

Quindi se le battute difficili non vi riescono, saltuariamente è consentitoricorrere a doppi sensi, anche licenziosi, tipo: “Dov’é la principessa?” “Sire, la Principessa è sul pisello!”.
Oppure potete fare uso della gestualità corporea, tipo: “Con quante sei andato mentre eri in Erasmus?” (Agitando la mano come per dire “insomma”) “Sei???!!!” “No, quasi una!”
L’operetta che va in scena a maggio, viene scritta fin da settembre dell’anno prima, e passa una serie di vagli, di tagli e di revisioni fatti durante cene e libagioni con i più anziani. Durante la prima lettura c’è sempre uno che viene invitato per rappresentare lo spettatore medio (all’epoca mia si chiamava Provenzano); ecco, se ride lui vuol dire che il teatro riderà. Di solito la sua risata è questa (faccio la risata di Provenzano) e poi alla fine della risata, ti spiega anche la battuta…che hai scritto te.
Lo spettatore medio ride a delle cose di cui non riesci a darti una spiegazione, tipo: “Alabarda spazialeeee!!!” o “Sono il Paguro. Avvicino la testa al culo, quando ho pagura.“ Queste fecero ridere, ve lo giuro, ma non ho mai capito il perché.

Poi, quando vai in scena ci sono delle variabili umane impreviste tipo l’”attore che non ci mette mano” o il “goliardo anziano ingestibile”.
L’attore che non ci mette mano è quello che: o non impara il copione, oppure impara anche le parti che spiegano la parte. Mi ricordo di una volta in cui un mio paribollo, che per rispetto chiameremo con un nome di fantasia, Rotolone, imparò la sua battuta così: “Quanto prese all’esame? Diciotto. Diciotto coltellate gli piantò nel cuore. Guarda l’orologio ed esclama. E’
tardi. Esce di scena correndo.” Nooo Rotolo, quello tra parentesi non lo devi dire…..
Oppure il goliardo ingestibile. Era il ’97 e sul proscenio dovevo stare nascosto dentro un barile e uscire fuori alla fine di una scena di gruppo in cui recitavano studenti che avevano da 9 bolli in su. Tra loro c’era un goliardo che, per garantire la sua privacy, chiamerò con un nome generico, Pippo.
Quel pomeriggio Pippo aveva un pochino straviziato; tirando su lo sguardo lo vidi comparire da sopra alla botte che mi guardava chiedendomi: ”Che devo di?”. Io gli suggerii la sua battuta e lui: “Non ho capitooo!!!!” Cominciò a scuotere il barile rischiando di farmi rotolare sull’orchestra. Io uscii fuori dalla botte tipo Arlecchino con un “Eccomi qua” che strappò anche un applauso.
Il problema fu proseguire. Pippo fu portato fuori e a un vigile del fuoco di turno dietro le quinte disse: “Pompiere, sigaretta” E lui: “Guardi che sono qui proprio perché non si può fumare” “Accesa!” Il vigile del fuoco non se la sentì di contraddirlo, prese il proprio pacchetto, accese una sigaretta, e la porse a Pippo, che proseguì felice la sua serata al bar.
Di variabili impazzite ce ne sono diverse ma quando scrivi un’operetta devi essere un po’ coraggioso e tenere sempre presente che l’operetta deveprendere di mira e deridere chicchessia ma principalmente tre categorie di esseri umani: i potenti, quelli che vogliono diventare potenti e i trombati.
“I potenti” sono l’obiettivo principale, è ovvio che al Goliardo restino un pochino sulle palle. Sono quelli che possono NON FARTI FARE qualcosa che vorresti fare o che possono dirti COME lo devi fare:

Chi sono?

I professori che POSSONO decidere il tuo voto
i vigili e le guardie che POSSONO farti la multa,
i dottori polemici che POSSONO rovinarti una serata a bollore,
i medici che POSSONO leggere le tue analisi del sangue,
i dietologi (io li odio proprio) che POSSONO dirti quanto e soprattutto cosa mangiare e bere,
i banchieri che POSSONO decidere se avrai o non avrai il mutuo
il Rettore che PUO’ decidere come va la tua Università,
il Sindaco e gli assessori che POSSONO stabilire come va la tua Città,
i presidenti di qualsiasi cosa che POSSONO comandarti, metterti le tasse, cambiare le carte in tavola,
i preti e gli arcivescovi che POSSONO farti venire i sensi di colpa,
il Papa che PUO’ chiacchierare tutte le domeniche,
il Papa Emerito che PUO’ dire “sono stato Papa…e sono ancora vivo!!!”
e infine, più potente di tutti e per questo da prendere in giro più di tutti, la Morte, che PUO’ toglierti la parola quando gli pare.

Poi ci sono “quelli che sperano di diventare potenti” sembrano ganzissimi, ti promettono che domani ti alzerai bello, ricco e senza occhiaie, che il mondo sarà come lo vuoi te, che quando ci saranno loro vedrai che libidine.
E il problema è che ci credi! Chi sono? Oltre a Lucignolo e a tanti venditori di fumo, ci sono i lecchini e i lacchè, i portaborse, gli assistenti, i candidati a tutto, i giornalisti che non fanno le domande e tutti quelli che conoscete che per non rischiare di cascare strisciano.
Infine ci sono “i trombati” sono tutti gli “ex qualcosa”. Tutti, tranne l’Ex Sindaco di Firenze che va messo nella prima categoria.
Sono quelli che hanno toccato il fiocco dei calci in culo, magari l’hanno anche preso, ma mentre la giostra girava, gli è cascato di mano. Ecco, quelli sono pericolosi, perché continuano a rimuginarci. “Eppure l’avevo preso, potevo fare un altro giro a sbafo, accidenti a quello dietro che mi pintava, questo giro non vale, ora sento se mi rifanno montare…”. Queste sono le tre categorie che chi scrive un’operetta dovrebbe mettere sempre tra i personaggi. Non potete capire quanto, per un ragazzo di 20 anni sia bello scrivere per il teatro goliardico. In quel momento pensi che te nella vita non potrai mai diventare come qualcuno di quelli che metti alla berlina. E
questa è un’illusione meravigliosa.

La Goliardia è meravigliosa. E ha una mamma ancora più bella di lei. È una signora di una certa età ma è sempre discreta, una milfona, insomma. E si chiama Libertà. Piace a tutti eh, ma fa paura, mette soggezione. Perché come scrisse il grande Roby Ricci, la Libertà è un cavallo che scalpita. E per un Goliardo, che si diverte a prendersi gioco di potenti, aspiranti potenti e
trombati, quel cavallo continua a correre fino a che la Morte, la più potente tra i potenti, non decide che le tue battute le sono venute a noia.
Quello che possiamo fare è continuare a tramandarci, per fare in modo che ci sia sempre qualcuno dopo di te capace di far correre quel cavallo. Perché nessuno è eterno, nessuno viene risparmiato.

NEMINI PARCETUR.
GAUDEAMUS.

Foto di Mario Llorca. Per vedere i suoi lavori mariollorca.com

Evento verdone

Evento verdone

roberto ricci

Roby è presente. Ancora.

Oggi sarebbe stato il compleanno di Roberto e mi piace ricordarlo così, con le parole che scrissi di getto quando, tre anni fa, la Nobile Contrada dell’Aquila decise di ricordare il suo figlio più bello, in una serata in Piazza Jacopo della Quercia in cui si ritrovarono più di mille persone.

“Per lavoro e per passione mi diverto a scomporre i molteplici significati delle parole di quella meravigliosa lingua che è l’italiano. Questo lo devo molto a Roberto Ricci che, quando avevo quattro anni mi dette una spinta sul palco del Teatro dei Rinnovati in una delle primissime edizioni di Ondeon. Lui, che di anni ne aveva diciotto, aveva scritto, con la sorella Patrizia, un delizioso sketch dove dei bambini armati di martello, distruggevano il mondo degli adulti per ricostruirlo a misura loro. Da quel momento per me e per la mia generazione di contradaioli dell’Aquila, salire e scendere dal palcoscenico è stato un appuntamento costante. E con noi c’è sempre stato Roberto, il cui strumento, a differenza di ciò che tutti credono, non era la chitarra ma la testa. Una testa capace di raggiungere picchi altissimi di poesia e contemporaneamente di giocherellare con i pertugi anche triviali, del nostro vocabolario. A me questa “escursione termica” tra il Roby alto e il Roby basso, mi aveva fatto innamorare di lui come di un fratello maggiore al quale tendere e che non vuoi deludere mai. Poi ci sono stati gli anni delle Feriae Matricularum. E lui, costantemente antitetico, era riuscito ad imporre un nuovo stile alla musica delle operette con canzoni memorabili fatte unendo brani di provenienze tra le più variegate.
Il Riccino è stato sempre con me, che ero consapevole che dovevo annullare la possessività nei suoi confronti, perché, come una “Bocca di Rosa” della musica, si concedeva a molti e spesso. Di Roby conveniva non essere gelosi. L’ho capito bene nei giorni di dolore che sono seguiti alla sua uscita di scena. A salutarlo c’erano, oltre a chi ci doveva essere, persone di ogni età, ex sindaci, ex rettori, studenti e suonatori, docenti e scansafatiche, bestemmiatori e sacerdoti, antiche signore e ragazzine, Quel giorno Siena era lì.
Sono stati mesi cupi e la ferita non ha ancora fatto la crosta, dopo più di tre anni la voglia è quella di cercare di girare pagina. Questo non vuol dire dimenticare, al contrario, giocando ancora con le parole, vuol dire capire che Roby è presente. Presente perché è ancora fortemente qui, in tutte le innumerevoli tracce di sé che ha disseminato per Siena. Presente perché la vita non si vive nel passato e il futuro, nel momento in cui si palesa, diventa comunque “presente”. Presente perché ci siamo tutti noi, geneticamente modificati dall’averlo vissuto come fratello, come amico, come figlio, come uomo da abbracciare a cucchiaio, come babbo, come compagno di classe o di bisbocce, come vicino di palco o compagnia notturna.
Non ho la fortuna di credere ad un “dopo” dove ci si ritrova e ci si riabbraccia. Ci spero tanto ma non ci credo. Per questo mi basta credere che il mio grande amico sia ancora qui. Fortemente presente.”

Auguri Mostro.

susine

E i morti saran sùcine…

Con l’avvicinarsi della Festa Titolare e  del Giro della mia Contrada, rispolvero questo pezzo evergreen su come si “dovrebbe” cantare il Maria Mater Gratiae.

Lungi da me volere scadere nell’irriverente. Quando si parla di cose di Chiesa bisogna sempre andarci con i piedi di piombo. Non vorrei fare la fine di Papa Luciani o, peggio, incorrere negli anatemi lanciati da Don Flavio. Però, lasciatemelo dire, il modo in cui cantiamo il Maria Mater Gratiae durante il giro, è a dir poco esilarante. Non per il fatto che il testo latino viene ciancicato in maniera atroce, quanto perché il significato che ne deriva è completamente diverso da quello originario.
Volete un esempio? Ecco, frase per frase come dovrebbe essere e come in realtà viene cantato il Maria Mater Gratiae:

Vero: “Maria Mater Gratiae. Mater Misericordiae, tu, nos ab hoste protege”
Falso: ” Maria Mater Gratiae. Mater Misericordiae, tu nostra madre protege”

I ringraziamenti rimangono gli stessi ma chi è che deve essere protetto? Il testo originale dice “ab hoste” che non vuol dire proteggici dall’oste che ci fa mangiare male e spendere tanto, ma proteggici dal nemico. Ecco, il popolo di tamburini e alfieri che, nelle chiese delle consorelle rende omaggio, pare che non tema i nemici ma chiede, in un modo un po’ infantile: “mamma proteggici!”
E questo è niente, state a sentire il secondo verso:

Vero: “Et mortis hora suscipe”
Falso: “E i morti saran sucine”

Che? I morti saranno sucine? Se non sbaglio nelle campagne senesi le sùcine sono quelle susine che, se mangiate in grande quantità provocano spiacevoli disturbi gastroenterici. Se i morti saranno susine i vivi sono forse albicocche? E i moribondi…pesche noci!? Roba da matti, perché poi i morti dovrebbero essere susine? Forse il Maria Mater Gratiae è un canto buddista dove tutto ha una grande anima e allora mi viene il dubbio che tutte le volte che mangio la marmellata ho appena spalmato nel pane un paio di cadaveri.
Andiamo avanti:

Vero: “Jesu tibi sit gloria. Qui natus es de virgine cum Patre et Almo Spiritu”
Falso: “Iesus Cristi gloria. Chi in altus è ‘sta virgine? Cum Padreterno Spiritu.”

Qui ci si chiede (che il Padre Eterno ci perdoni!), quante vergini sono rimaste. a risposta è retorica, come la domanda.
Se è vero che il latino è una lingua morta, questo è un oltraggio al suo cadavere. Chissà se prima o poi impareremo. Nel frattempo, aspettando di ascoltare gli strafalcioni dei monturati, mi concedo una susina, pace all’anima sua. Il Giro è maturo.

W l’Aquila in sempiterna saecula. Amen.

 

Nella foto una marmellata di susine, o sùcine (per dirlo alla campagnola).

valli

Ricchezza di fine estate

Stamani mi sono alzato tardi e questa è già una buona parte della ricchezza che ho trovato oggi per caso. Ho sceso le scale di pietra della mia casa di campagna con gli occhi pieni di cispe e mi sono incamminato per i viali della Fattoria di Montestigliano. Viali che trenta anni fa erano costeggiati da cipressi belli come erezioni mattutine ma che ora stentano malaticci e rinsecchiti. Anche la strada, che prima la potevi percorrere anche col monopattino, ora è una serie di calanchi che nemmeno una macchina da Camel Trophy oserebbe affrontare. Dopo un chilometro c’è una svolta a sinistra. Poco più avanti il cancello di un antico podere che qualcuno chiamó “Il Pozzo”. Accanto al cancello una strada che lo aggira che rappresenta tutta la pigrizia del mondo di chi non ha voglia di scendere dalla macchina per aprire un cancello. Oltre solo ulivi non potati che quest’anno non faranno olive. Sono andato più avanti e mi sono buttato giù per una strada nella quale ho preso una coppia di storte: una per ogni caviglia. Ero solo, anzi no. Ho percorso la discesa accompagnato da mosconi e tafani che devono aver scambiato la mia polo bianca per il groppone di una chianina. Un moscone mi si è tuffato in un orecchio ma ne è immediatamente riemerso disgustato. Un tafano, invece, ha trovato la strada del colletto e mi ha più volte baciato la schiena. Dopo un km e mezzo sono arrivato ad uno spiazzo che ricordavo pieno di alberi. Ora gli alberi sono ordinatamente accatastati nell’attesa che arrivi qualche proprietario di caminetti. La vista della Piana di Rosia era bellissima: in fondo a un campo di girasoli che hanno ormai abbassato la testa, passava lontana qualche macchina della quale non sentivo il rumore. Mi sono avvicinato al borgo di Valli evitando la stradina a sinistra che mi avrebbe riportato a casa passando da un vecchio cimitero di campagna dove restano le foto e i nomi di antichi contadini i cui genitori avevano trovato qualche libro per caso: Ivanoe, Gengisse, Vasintonne (maledetto impiegato dell’anagrafe che non sapeva scrivere Washington), Napoleone, Artù. La strada a destra porta invece proprio a Valli: a cinquecento metri in linea d’aria più sopra c’era la casa del fattore ma lì sotto nascevano e morivano i braccianti. Nacque in una di quelle case Evelina detta Vela, nonna di Marco, mio amico d’infanzia. Vela “emigró” in età da marito al Poggio di Stigliano, quattro chilometri più a nord senza più tornarci. Ora quelle case sono transennate, i tetti hanno perso la voglia e sono venuti giù. È rimasto in piedi solo un bel forno a legna, che non ha fatto più il pane dai tempi di Don Camillo al cinema. Le finestre sono abitate da famiglie di piccioni e da ritrovi di lucertole. Mentre passeggiavo tra quei ruderi mi sono immaginato a cavallo, padrone di quelle pietre, salutato dalle bestemmie dei contadini che mi regalavano uova calde e cipolle terrose. Ho immaginato di essere un milionario e ho pensato che non sognerei una barca da 40 metri. Il mio sogno sarebbe rimettere un tetto alle case di Valli e di rifare il pane in quel forno spento. Sono andato più avanti e ho trovato dei rovi. Stasera ci torno. Non con un progetto milionario e con un archistar ma ci tornerò con un paniere di vimini. E farò misdea di quelle poche more. Credendo di essere ricco come il Signorotto della Piana di Rosia.