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Despa Cito

Il tormentone da milioni di click che ha dato il colpo di grazia alla mia già precaria relazione con il mio cognome.

Alla fine degli anni ’70 essere nati a Siena e possedere un cognome che non finiva per “i” (ma era preferibile uno che finiva per “ini”), era abbastanza raro. Invece non era raro essere preso in giro per quella “o” che lo chiudeva. Vaglielo a spiegare che, da parte di mamma sono discendente di quelli che hanno scolpito le statue del Duomo, di quello che ha restaurato l’affresco dietro l’altare della Santissima Annunziata, che il mi’ nonno era amico di Mastuchino e che il mì bisnonno era protettore di sette contrade (perché prima funzionava così, se volevi bene a Siena).
Non c’era verso, per gran parte dei compagni di classe ero un “terrone”. Uno, una volta mi spiegò che ero stato sfortunato perché se almeno il cognome fosse finito con la “a” potevo fare finta di essere di Milano. Ma con la “o” non c’era scampo: terrone!

Il nome te lo porti dietro a vita e io ne avevo uno che, per gli “amici” mi faceva sembrare il fratello della scimmia di Tarzan. Feci delle rimostranze a mio padre chiedendogli almeno di poter utilizzare il cognome di mia nonna paterna. “Lentini” era camuffabilissimo e mi avrebbe mimetizzato alla grande tra i vari Bossini, Cesarini, Lombardini, Ceccherini, Bernini, Bruschettini. Lui provò a spiegarmi che Cito vuol dire veloce e che i suoi avi non erano gli Zulù ma Pitagora e Archimede. Tuttavia ma non fu abbastanza convincente. Smisi anche di leggere Topolino per essere sicuro di non trovare tracce del mio trisavolo Archimede Pitagorico.

Il nome comune era Bianciardi, c’era almeno un Bianciardi in ogni classe (io ne avevo due). Per farsi burla di me il mio amico Duccio, dall’alto del suo “Naldini”, mi chiama ancora “Bianciardino”. Come a dire: “sei di Siena anche te, dai. Però meno.”
Al liceo la botta grossa arrivò quando quella splendida ragazza di terza mi chiese: “E a te perché ti chiamano Cito?”. Fu lì, credo, che iniziai a masticarmi le unghie.

Le ore di scienze erano tutte una risata; per gli altri. Quando la prof spiegava le cellule: citologia, citoplasma, citozoi, citomegalovirus erano come una puntata di Mr Bean. Peccato che Mr Bean fossi io. Vissi un attimo di pausa quando passò dal Tolomei una ragazza che di cognome faceva “Chiavai”. Ahahahahhah, chiavai!!!! Ma, maledizione, cambiò subito scuola prima della fine del quadrimestre.
Erano gli anni del “Drive-in” e la domenica sera Giorgio Faletti, che ancora non aveva scoperto di essere uno scrittore di best seller, faceva Vito Catozzo, il poliziotto terroncello tamarro con la pancia. Secondo voi come mi chiamavano a scuola il lunedì mattina? Cito Catozzo.

Finalmente arrivò la maturità. “Alè! Andiamo all’università, lì di gente con il cognome strano sai quanta ce n’è!!!”
Al primo esame di inglese il professore scozzese mi segna come “Gamoiero Ciko” (c’è qualche stupido amichetto che fa il giornalista che mi chiama ancora così). L’anno dopo, seduti all’appello di informatica generale, il professore ci chiama in ordine alfabetico. Quando dalla C passa alla D, inizio a temere il peggio. Lo faccio arrivare in fondo e, siccome non ero stato chiamato, alzo la mano. Scoprii così di essere stato iscritto come Ciro Giampiastro. E per giunta bocciai anche all’esame.
Con l’età ho imparato a conviverci (mi ricordo anche di aver consolato mio padre quando indagarono il sindaco di Taranto che si chiamava come noi e che “non gli somigghia pe nniente”, praticamente due gemelli omozigoti).
Ho superato le prese di culo, i versi della scimmietta, i saluti alla Padrino, le domande su cosa avrei fatto se avesse vinto la Lega.

Ma quando, per colpa di quella canzoncina di merda, che fa “Pasito, pasito”, da qualche mese la gente ha cominciato a chiamarmi Despa, mi viene voglia di andare all’anagrafe e dargli foco. E per combustibile uso un dj che ama il commerciale latinoamericano.

Ps. Babbo, si fa per scherzare.

Obama

Barack & burattini

Alcune piccole premesse per chi dovesse leggere questo post:
1) non sono uno che ha la puzza sotto il naso, ma nemmeno uno con l’anello al naso
2) non sono radical, né tantomeno chic
3) forse, se fossi stato in città ieri, il mio filmino con Obama l’avrei postato anche io
4) voglio bene a Siena esattamente come voi, né più, né meno.
5) se venisse un Obama al giorno sarei più che felice

Bene, ora posso partire a scrivere.

Ho visto sui social un grande interesse tra i miei concittadini per l’arrivo di Obama a Siena. Bene. Mi ha ricordato l’arrivo di Carlo V salutato da folle festanti. Quindi mi giunge d’obbligo, per amor di metafora, provare a ragionare “alla senese” per cercare di spiegare quel che penso di Obama.

Obama è l’ex capitano di quella contradona che ci ha fatto fare da sgabello fin da quando nel ’44 ci fece togliere la cuffia. Che c’entra, è vero anche che nel ’44 si veniva fuori da un periodo nero e che negli ultimi due o tre anni ce ne avevano date come noci. Ê vero che ci pagarono il Palio e ci ricostruirono la società che ci avevano bombardato. Ci dettero fantino e rincorsa. Da allora siamo alleati ma il rinfresco glielo facciamo solo noi. Che c’entra, gli s’è mandato una manciata di delinquenti a vivere nel loro territorio che si sono anche organizzati e qualche volta sono entrati anche in Seggio. Però loro c’hanno messo le mattonelle e i braccialetti nelle nostre strade, quando ci sono le elezioni, la commissione elettorale sente anche loro. Una volta ci hanno fatto trovare un nostro ex priore in un bagagliaio e ci hanno tirato un missile nel palco per le prove. Ma non è sicuro che siano stati loro.
Ragazzi, non scherziamo, mica dico che la cuffia sarebbe stata meglio, o che sarebbe stato meglio essere sgabelli della loro avversaria. Però c’è toccato ingollare diversi fantini che facevano quello che conveniva a loro, specialmente il Gobbo Saragiolo. Ogni tanto c’hanno fatto vincere qualche prova, anche qualche Palio via via per farci credere che si stava bene. Però, diciamocelo, si voleva essere liberi di comandare e c’hanno soverchiato. E ce lo siamo anche fatto garbare.
Ieri è venuto l’ex capitano, quello simpatico, uno del popolino a giudicare dal colore. Infatti, come quelli del popolino, gioca a golf e fa una bella sottoscrizione.
Il capitano nòvo, invece, non mi garba per niente. Alle elezioni è passato male e gli si sono dimessi già un mangino e il vicebarbaresco. Ha fatto il capitano solo perché è pieno di quattrini. È uno che le spara grosse. Secondo me non arriva alla fine de mandato. Lo fanno dimette’ prima.
Almeno poi ritorna quello ganzo, che mangia la tagliata coi porcini del congelatore. E quando girano gli si riapre la chiesa e gli si spiega colle bandiere. Che tanto come bisogna fare il Palio ce lo spiega lui.

ciliegie

Le ciliegie e gli uccelli migratori

Non avendo alcun talento nello sport, il mio sport preferito è sempre stato quello di cercare metafore universali nelle piccole immagini del quotidiano. Passeggiando intorno agli alberi della casa in campagna, mi sono messo ad osservare il ciliegio, bello carico di bacche ancora verdi. Ho pensato ad alta voce: “quest’anno ne ha fatte una marea”. Mia madre ha subito stroncato il mio ottimismo, “dipende da quante ce ne lasceranno gli uccelli”.
Sì, perché ogni anno in questa stagione si combatte una battaglia senza esclusione di colpi (ma senza sparare) tra i miei genitori e stormi di merli, passeri, storni e pettirossi. Credo che Hitchcock si sia ispirato al mio orto quando ha girato “Gli uccelli”.
In questa lotta ci ho rivisto la vanità di chi affronta il tema dell’immigrazione con l’illusione di poterlo gestire e controllare a proprio uso e consumo, come se, solo per il fatto di essere nati qui, fossimo noi i padroni del ciliegio.

Ho quindi elaborato una serie di proposte per risolvere una volta per tutte la questione:

1. Partendo dal dato di fatto che il ciliegio è nostro, lo dice il catasto, chi vorrà mangiare le nostre ciliegie dovrà, per forza, passare il cancello e chiederci il permesso. Se i richiedenti arrivano dal cielo, almeno ci facciano la cortesia di arrivare alla spicciolata e non in gruppi superiori a 10. (Ad oggi questa proposta non è stata ascoltata)
2. Per gestire meglio i flussi, si richiede ai volatili di non arrivare tutti nello stesso periodo, quando le ciliegie sono mature, ma di organizzarsi in turni per coprire anche i mesi invernali e quelli estivi, quando le ciliegie non ci sono. (Ci è stato risposto con un fischiettio da un fringuello che aveva tanto il suono di una presa di culo)
3. Dal momento che abbiamo un vicino a destra e uno a sinistra della nostra proprietà, chiediamo ai confinanti di prendersi una parte degli uccelli sui propri ciliegi. Il vicino a sinistra ha detto che lui fa già la sua parte accogliendo stormi e passeri anche nell’albicocco. Quello nella proprietà a destra ha risposto segando il proprio ciliegio e ricavandone un posto auto.
4. Come soluzioni interne ci siamo organizzati in corvè di 6/8 ore per dissuadere i volatili dall’approdare sui nostri rami: mia madre ci parla chiedendo per favore di transitare oltre senza recare disturbo, mio padre ha caricato una raccolta di dvd sui rami sperando che i riflessi sui dischi impauriscano lo stormo. Io ho improvvisato una manifestazione supportata dalla lobby dei fruttivendoli che, temo, abbia dei conflitti di interesse notevoli.
5. Abbiamo pensato di dipingere con lo spray di verde tutte le ciliegie, in questo modo gli uccellini non capiranno che sono mature e noi potremo mangiarle perché siamo più furbi. Non siamo noi quelli dell’illuminismo? (Abbiamo successivamente scoperto che la vernice era tossica)
6. Abbiamo chiesto al Comune di Sovicille di farsi carico del problema perché non può essere mica il singolo, solo perché il suo orto è posizionato proprio dove passano i flussi migratori, a restare senza ciliegie tutti gli anni. Ci è stato risposto che ci stanno pensando ma le priorità sono altre.
7. Abbiamo preso la decisione di cogliere noi le ciliegie e inviare il 10% del raccolto dove gli uccelli hanno svernato, perché è giusto aiutarli a casa loro.
8. Ci sono dei vicini che ci fanno notare che alcuni uccelli si sono permessi di schifare le nostre ciliegie dando una beccata e buttandole in terra. Almeno mangiatele, perdio! Meglio se quelle marcite, tanto per voi che differenza fa?
9. Si è verificato il caso di un merlo che canta “ti mangio ciliegea, no pago affitto”. Mio padre si è subito informato di fosse è quell’imbecille.
10. Alla fine abbiamo fatto una riunione di famiglia dove abbiamo deliberato che a noi di ciliegie bastano due panieri. Ok agli uccelli, basta che tolgano da terra i noccioli.

Mi sono messo a guardare il ciliegio. E’ bellissimo. E penso che sia naturale che continuino a volarci sopra gli uccelli.

Fine della metafora.

belly bag

Indizi che ti fanno capire che sei grasso

Una sera di qualche anno fa avevo invitato un po’ di amici a cena. Inevitabilmente, dopo il dolce parte il giochino alcolico: “Quanto pesa?”

A turno si sceglieva un oggetto presente nella stanza e tutti si doveva indovinare il peso esatto. Dopo la controprova sulla bilancia da cucina, chi si era avvicinato di meno, beveva. Facile, no?

Quando il tasso alcolemico era salito abbastanza, si passò a cercare di indovinare il peso dei presenti. C’era anche un noto parcheggiatore che, all’epoca era, diciamo, la mia custodia. Tutti gli attribuivano 145, 148 kg e lui spavaldo, era sicuro di essere 130 kg. Esatti.

Aveva ragione lui! La bilancia segnava esattamente 130 kg. A qualcun altro venne in mente di girare la bilancia e sul retro c’era scritto: “pesa fino a 130 kg”! Di più la bilancia non dichiarava.

Quella sera ho capito che, anche se lo vuoi negare agli altri e a te stesso, ci sono degli indizi che ti fanno capire che dovresti metterti a dieta. Eccone alcuni:

  • Quando sali sulla bilancia e stai sulle punte tipo Roberto Bolle sperando di rubare 3 etti.
  • Quando ti pieghi per legarti le scarpe e devi rialzarti per riprendere fiato due o tre volte perché la pancia ti strizza i polmoni.
  • Quando entri in un negozio di vestiti e chiedi sorridendo alla commessa: “Avete niente per me?” E lei risponde convinta: “No!”
  • Quando ti trovi a Broadway e leggi su un’insegna luminosa: “Fame” e la tua compagna ti dice: “Guarda che è un musical!”
  • Quando ti rendi conto di avere cambiato più dietologi te che allenatori Zamparini.
  • Quando ingenuamente dichiari durante una cena coi tuoi amici che ora fai la dieta a zona consigliata da un dietologo che tutti conoscono fin dall’infanzia e loro lo chiamano, lo mettono in vivavoce cantando “Fallo sudare, o Lello fallo sudare”. E dopo due mesi lui cambia lavoro.
  • Quando mentre fai all’amore non ti devi preoccupare soltanto della tua erezione e dell’altrui godimento ma anche delle doghe del letto.
  • Quando in confronto a te, i quadri di Botero sembrano opere di Modigliani
  • Quando vai da un tatuatore e ti fa un preventivo al metro quadro.
  • Quando a tuo padre, che non è esattamente un’acciuga, gli passi i vestiti di quando eri meno grasso.
  • Quando l’unica cosa che riesci a dire in cima alle scale è “ihhhhhhhh”….
  • Quando fai pipì e per vedertelo ti devi sporgere e, siccome ti pesa anche il capo, caschi in avanti e con la testa tiri lo sciacquone.
  • Quando, se dormi a pancia sotto, ti viene la gobba.
  • Quando trovi Rotolone e ti dice: “Ti dovresti riguardare!”
  • Quando sei in aereo e prima del decollo il tuo vicino di posto chiede alla hostess se può sedersi accanto a quell’arabo con lo zaino che sta pregando.
  • L’immagine è ripresa da una campagna del 2011 che pubblicizzava un corso di pilates a Istanbul e Ankara. L’autore è Fatih Şenay, potete vedere altri suoi lavori qui.

    facebook

    Il primo che ti commenta su Facebook

     

    Scrivere su Facebook sta diventando demodé, ve ne siete accorti anche voi? Anche quelli che, come me, scrivevano e postavano ennemila volte al giorno si stanno rassegnando all’evidenza che Marchino lo Zucherberg non voleva vedere il nostro gatto; voleva venderci al migliore offerente. E noi ci siamo fatti vendere la vita senza guadagnarci un penny. Vabbè, ormai è andata.

    Però ci siamo un po’ annoiati, specialmente da quando Marchino ci ha privato di quella spruzzata quotidiana di Autostima n°5, il pieno di “mi piace”, con la quale andavamo a letto felici, anche se nudi.

    I like sono sempre meno, i soldi neanche a parlarne e anche le stagioni non sono più mezze con una volta. Ma questo potrebbe anche passare; quello che non possiamo più ingollare è il Signor “Il primo che ti commenta su Facebook”. Ognuno di noi ha il suo personale, che spesso è sempre il solito. Il caro Umberto Eco diceva che quando scriviamo lo facciamo per farci leggere da un “lettore  modello”, che però purtroppo, combacia raramente con il lettore reale. Scrivo un post che secondo me spacca e mi immagino già il like con commento di quella che avevo salutato ieri in piscina e invece arriva il commento inopportuno e fuori luogo di quello del negozio di scarpe. Che tra l‘altro, da lui le scarpe non ce le compro neanche. Oppure metto una foto di un viaggio e “Il primo che ti commenta su Facebook” è quello che mi fa notare che l’anno scorso ero 10 kg meno. O che lui c’era già stato e ha speso la metà. O che prosegue a dritto la polemica iniziata nel post precedente.

    “Il primo che ti commenta su Facebook” va ignorato: un vostro mi piace al suo commento, dato più per educazione che per altro, può portarvi in dote altri 10 commenti inopportuni a post futuri. Non lo fate!

    Perché il Signor “il primo che ti commenta su Facebook” non vi segue, vi pedina.

    E, come spesso accade nella vita, non è mai quello che avevi desiderato ti pedinasse.

    piccioni

    Il gusto di tirare la merda

    Breve post rivolto a blogger locali dal giudizio più veloce del west e commentatori seriali compulsivi che rischiano di pestarla.

    Aneddoto:

    Una volta, mentre stavo viaggiando in treno verso Milano, mi capitó di incontrare un presidio dei Cobas del Latte. Al passaggio del treno iniziarono a sparare letame di vacca con gli idranti. Un bambino chiese alla mamma perchè ci piovesse addosso fango. Qualcuno fece notare al piccolo che quello non era esattamente fango. Una ragazza vomitò, per aggiungere una ciliegina su quella doccia non prevista e in omaggio con il biglietto di una corsa che faceva già segnare un pesante ritardo sull’orario di arrivo previsto. Molti dei passeggeri che viaggiavano con me, quando si erano messi a sedere su quel Frecciarossa erano dalla parte dei Cobas, qualcuno lo dichiarò pubblicamente (e anche io riconoscevo le loro buone ragioni) ma il fatto di essere stati ricoperti di sterco mentre stavamo viaggiando per lavoro, seppur dentro un treno con i finestrini chiusi, ci fece domandare che senso aveva tirare la merda a gente che non c’entrava niente con la loro sacrosanta protesta. Decidemmo che per protesta non avremmo bevuto piú latte. Io ho mantenuto la promessa per cinque anni. Nel frattempo mi sono dimenticato le  ragioni di quella protesta che ci concimò.

    Morale:

    anche se pensi di avere tutte le ragioni del mondo, tirare la merda senza guardare a chi la tiri, alla fine non conviene. Rischi di fare la fine del piccione e di finire in una tegamata. Perché il gusto di tirare la merda, alla fine ha sempre un gusto di merda.

    omino col cappello

    Teorema dell’ambulanza: l’importanza del sapersi mettere da parte.

    Il terribile incontro di un’ambulanza con la sirena spiegata e il sempreverde Omìno col Cappello, sulla sua potente autovettura: una metafora dell’Italia.

    Ci sono, nella vita di tutti i giorni, delle metafore che, nel momento in cui accadono, hanno il potere di farti riflettere. Ero in tangenziale che andavo alla svelta verso Dovemipare, amena località immersa nel verde tra Sarannocazzimiei e Fattiicazzituoi, quando ho sentito in lontananza una sirena che diventava sempre più forte e più vicina. Io e gli altri che erano sulla strada come me, abbiamo messo la freccia e abbiamo accostato per far passare l’ambulanza. Tutti, tranne un meraviglioso vecchietto stile Mr Magoo che, immagino a causa di una conclamata sordità, continuava a procedere a 60 km all’ora con la linea di mezzeria posizionata perfettamente al centro della propria Fiat Panda (quella fatta con l’accetta, per capirsi). Le braccia accorciate per avvicianare il petto al volante nella speranza che, accostando gli occhi al parabrezza, sarebbero tornate quelle diottrie ormai perdute con l’incedere dell’età.

    L’ambulanza, non potendo clacsonare, vista la presenza della sirena già attiva, ha iniziato a sfarettare, ma l’imperterrito signore ha continuato a procedere in direzione ostinata e fortunatamente non contraria, fino a quando, sotto gli occhi di una fila di macchine ferme con la freccia lampeggiante, non sono sparite entrambe, la Panda e l’ambulanza, a 6o all’ora dietro la prima curva. Ho sentito la sirena allontanarsi lentamente e, mentre le macchine davanti a me rientravano sulla strada, mi sono chiesto quanto tempo ci sia voluto all’ambulanza per arrivare a destinazione.

    Mi sono chiesto chi ci fosse sull’ambulanza: magari era un coetaneo di quell’omino, colpito da trombosi, che aveva già tirato il calzino, magari c’era una ragazza appena caduta di motorino, o una donna che stava per partorire, o un cittino arrotato sulle strisce. Ho sperato di no, che i volontari avessero soltanto fretta e avessero deciso, all’italiana, di accendere la sirena per scroccare un passaggio veloce in una tangenziale vuota. Perché poi succede sempre così, quando qualcosa ti disturba scegli sempre il male minore. Che non è mai la cosa giusta.

    E’ qui che parte il ragionamento sulla metafora: per quanto si dica: “largo ai giovani”, “lasciamo spazio alle nuove generazioni”, “facciamo sistema”, ” facciamoci da parte”, basta che ci sia qualcuno che non intende mettersi di lato e lasciare il passo, e tutto è bloccato. Il teorema dell’ambulanza funziona solo se tutti capiamo che quando c’è qualcosa che merita di passare avanti ai nostri interessi, il vantaggio per tutti è quello di mettere la freccia e fermarsi. Perché un giorno su quell’ambulanza ci si potrebbe essere noi, con la nostra priorità.

    Perché è vero che la strada è di tutti; ma basta un omìno col cappello (o senza) che si metta di traverso e tutto questo parlare di cambiamento, di futuro, di civiltà, si ferma come una fila di macchine sul ciglio della strada che non possono fare altro che offendere quell’omino di merda, in un post su Facebook. O pensare di votare il primo che ti dice che le Panda andrebbero rottamate. O, peggio, al movimento di quelli che vogliono abolire gli omìni col cappello.

    PS. Secondo voi dove andava quel Signore? Secondo me era diretto a Matelovai, frazione di Tubbattessi. Sì, ma con calma, eh.

    lupin

    Quando rubai due tergicristalli (e poi li riportai)

    Lo confesso: anche io ho un passato da malvivente. Appena ottenuta la patente presi una mitica Panda 30 del 1981 che esalò il suo ultimo rantolo durante un pranzo di classe (non perché fossero presenti persone di un certo rango ma perché era un gruppetto di brufolosi compagni di scuola, tutti rigorosamente maschi) a Brolio.

    Il concessionario, evidentemente pentito di avermi rifilato un rottame, mi propose allora una vecchissima Polo che nello scambio mi sembrò una Tesla.

    Comprai, con i miei pochi risparmi, anche un’autoradio che mi fu rubata fuori dal Papillon dopo pochi giorni. Nelle settimane successive sparirono anche l’antenna (oramai inutile) e due copricerchioni. Evidentemente all’epoca Siena era già un territorio malfamato. Si sta parlando della prima metà degli anni ’90 quando Max Pezzali la faceva da padrone. Praticamente tutto come adesso, compresi i Democristiani al governo.

    Un diciannovenne senza autoradio è come un diciannovenne senza la macchina ma, ahimé, i risparmi erano finiti e ancora non c’era l’ipod da attaccare alle casse dell’auto. Mi adattai ad alcuni mesi di walkman in macchina con le cuffie fino a che per questo non presi una multa che vidi bene di tenere nascosta ai miei a cui non avevo raccontato del furto dell’autoradio.

    Quando arrivai a prendere la mia Polo e mi accorsi che i tergicristalli davanti erano spariti, non ci vidi più: tornai a casa, piansi per lo sconforto, presi il mio unico passamontagna giallo (regalo di una befana nell’Aquila di circa 10 anni prima) e mi trasformai in Lupin III. Cercai una Polo parcheggiata nella zona di San Prospero dotata di tergicristalli e, provocandomi alcune ferite alle mani, scappai con la refurtiva. Nel buio della Fontana, a due passi dal Campino dove avevo giocato per ben 37 secondi una memorabile partita della Nirvano Fossi (ma questa è un’altra storia), recuperai un po’ di fiato e di lucidità. Mi vidi passare davanti tutta la vita. Ed era una vita da carcerato. Mi pentii come Giuda e, non avendo una corda con la quale appendermi, decisi di riportare i due tergicristalli alla Polo a cui li avevo rubati. Sarebbe stato singolare essere arrestati nel momento in cui restituivo il mal tolto. Mi rimisi il passamontagna (se ci fosse una videocamera che mi ha ripreso gradirei avere la registrazione) e furtivamente passai due minuti cercando di rimettere il tergicristallo come l’avevo trovato. Fui illuminato da due fari: “Oh, no! Mi hanno beccato!”. Era un vecchietto che mi strizzò l’occhio pensando che quella Polo fosse la mia. Terrorizzato dagli anni di galera a cui andavo incontro, lasciai i tergicristalli appoggiati al parabrezza e fuggii nella notte.

    Il giorno dopo pioveva. Da allora penso al momento in cui il proprietario dell’auto arriva con il suo ombrello a riprendere la macchina, accende il quadro e i due tergicristalli volano via come lacrime nella pioggia. Sai che bestemmie.

    Non l’avevo mai raccontato a nessuno. Ora mi sento sollevato.

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    L’Opinione e la Sentenza: in morte di Secondomé

    In questo triste 2016 si è consumata una tragedia di cui nessun giornale parla: è venuto a mancare prematuramente Secondomé. E’ stata una morte improvvisa e violenta; si trovava sullo stesso pulmino di Pensoché, Credoché, Ammioavviso, Suppongoché. Sono finiti in un burrone e non c’è stato niente da fare. Se ne sono andati in silenzio nell’indifferenza di tutti. Si è salvato miracolosamente solo Massietesicuriché ma le sue condizioni sembrano disperate.
    L’ultima volta che ho visto Secondomé era tra i commenti ad un’instagrammata di Belen. Poi la tragedia. Senza di loro se ne va l’opinione e resta la Sentenza, che tutti possono usare senza accettare repliche. La verità è diventata una. A testa. Ognuno ha la propria e non accetta che altri possano proporre una verità alternativa. Pare che sul pulmino ci fosse anche il berlusconiano Miconsenta. Con lui se ne va l’ultimo barlume di buona educazione di chi, prima di dire una cazzata, almeno chiedeva il permesso. Facebook è un enorme tavolino sul quale ognuno di noi sbatte il pugno. Il fatto è che lo facciamo tutti, tutti insieme, tutti i giorni. Sentenza ci guarda con gli occhi di ghiaccio e ci sbatacchia una verità assoluta in faccia per quel lunghissimo istante che leggiamo il suo post. E’ una certezza che non ammette repliche. E’ il tentativo di prendersi di forza una ragione che nessuno, nel mondo là fuori è disposto a darti così facilmente. E’ solo una dichiarazione di debolezza. Secondo me.