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roberto ricci

Roby è presente. Ancora.

Oggi sarebbe stato il compleanno di Roberto e mi piace ricordarlo così, con le parole che scrissi di getto quando, tre anni fa, la Nobile Contrada dell’Aquila decise di ricordare il suo figlio più bello, in una serata in Piazza Jacopo della Quercia in cui si ritrovarono più di mille persone.

“Per lavoro e per passione mi diverto a scomporre i molteplici significati delle parole di quella meravigliosa lingua che è l’italiano. Questo lo devo molto a Roberto Ricci che, quando avevo quattro anni mi dette una spinta sul palco del Teatro dei Rinnovati in una delle primissime edizioni di Ondeon. Lui, che di anni ne aveva diciotto, aveva scritto, con la sorella Patrizia, un delizioso sketch dove dei bambini armati di martello, distruggevano il mondo degli adulti per ricostruirlo a misura loro. Da quel momento per me e per la mia generazione di contradaioli dell’Aquila, salire e scendere dal palcoscenico è stato un appuntamento costante. E con noi c’è sempre stato Roberto, il cui strumento, a differenza di ciò che tutti credono, non era la chitarra ma la testa. Una testa capace di raggiungere picchi altissimi di poesia e contemporaneamente di giocherellare con i pertugi anche triviali, del nostro vocabolario. A me questa “escursione termica” tra il Roby alto e il Roby basso, mi aveva fatto innamorare di lui come di un fratello maggiore al quale tendere e che non vuoi deludere mai. Poi ci sono stati gli anni delle Feriae Matricularum. E lui, costantemente antitetico, era riuscito ad imporre un nuovo stile alla musica delle operette con canzoni memorabili fatte unendo brani di provenienze tra le più variegate.
Il Riccino è stato sempre con me, che ero consapevole che dovevo annullare la possessività nei suoi confronti, perché, come una “Bocca di Rosa” della musica, si concedeva a molti e spesso. Di Roby conveniva non essere gelosi. L’ho capito bene nei giorni di dolore che sono seguiti alla sua uscita di scena. A salutarlo c’erano, oltre a chi ci doveva essere, persone di ogni età, ex sindaci, ex rettori, studenti e suonatori, docenti e scansafatiche, bestemmiatori e sacerdoti, antiche signore e ragazzine, Quel giorno Siena era lì.
Sono stati mesi cupi e la ferita non ha ancora fatto la crosta, dopo più di tre anni la voglia è quella di cercare di girare pagina. Questo non vuol dire dimenticare, al contrario, giocando ancora con le parole, vuol dire capire che Roby è presente. Presente perché è ancora fortemente qui, in tutte le innumerevoli tracce di sé che ha disseminato per Siena. Presente perché la vita non si vive nel passato e il futuro, nel momento in cui si palesa, diventa comunque “presente”. Presente perché ci siamo tutti noi, geneticamente modificati dall’averlo vissuto come fratello, come amico, come figlio, come uomo da abbracciare a cucchiaio, come babbo, come compagno di classe o di bisbocce, come vicino di palco o compagnia notturna.
Non ho la fortuna di credere ad un “dopo” dove ci si ritrova e ci si riabbraccia. Ci spero tanto ma non ci credo. Per questo mi basta credere che il mio grande amico sia ancora qui. Fortemente presente.”

Auguri Mostro.

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Roby, il Giullare di Siena (ricordo di un amico)

La dannazione di chi, come me, è figlio unico, è quella di passare la vita a cercare dei fratelli. Il vantaggio è quello che, in questo caso, puoi permetterti di scegliere. Pensate ad Abele quanto avrebbe preferito essere figlio unico o la nostra senesissima Santa Caterina, 25esima di 26, tra fratelli e sorelle. Molto meglio stare tra i lebbrosi che in una casa coi letti a castello a dieci piani, direi.

Io nel corso della mia vita, di fratelli e sorelle, ne ho trovati alcuni. E li ho scelti con attenzione.

Uno di questi si chiamava Roberto Ricci. Ma tutti lo chiamavano Roby. Per un bel po’ siamo stati dei gemelli diversi. Diversi per età, lui era molto più grande e io ero quello più adulto. Diversi per talento: lui aveva una voce che copriva un’estensione da Mina a Mario Biondi, io invece mi diverto a giocherellare con le parole, ma quelle scritte. Eravamo diversi anche per aspetto fisico: lui alto, bello e di gentile aspetto, io no.

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Quando sono nato, lui aveva già l’età del motorino ma progressivamente ci siamo ritrovati ad essere coetanei. Non so se ho corso troppo io o se si è fermato lui ad aspettarmi. Il fatto è che, in una città come la nostra, è possibile anche questo. A Siena coetanei si diventa. Basta condividere qualcosa di grande come le passioni. Per noi le passioni comuni erano la Contrada (l’Aquila), le Feriae Matriculaum e la voglia di fare divertire gli altri.

Roby aveva una caratteristica che nessuno in questa città riesce ad avere. Era un giullare. A chi come me per passione e anche per lavoro, racconta storie, è noto che negli archetipi della narrazione esistono molte figure che creano un percorso che è possibile ritrovare in ogni storia, dall’Odissea al Signore degli Anelli, passando per Pinocchio. Si chiama “Il viaggio dell’Eroe” e può essere raffigurato come un cerchio. Anche la nostra vita funziona e si sviluppa più o meno così. Si parte dal primo ruolo: “il bambino innocente”, e dopo una serie di prove, e passando di ruolo in ruolo (l’orfano, il guerriero, l’esploratore, ecc.), si arriva alla matura padronanza di se stessi nel ruolo di “re”. Molti si fermano qui e vedono in quel punto di arrivo un vero e proprio successo: l’età della pensione di chi ha già dato tutto e ora può governare il tempo che gli resta da vivere. Poi ci sono alcuni che vanno oltre. E qui c’è la dodicesima figura, il dodicesimo archetipo narrativo: “il Matto”, “il Giullare”. Quello che la società tende a spingere il più lontano possibile, ma che il Re vuole sempre vicino a sé perché gli ricorda come si dovrebbe vivere davvero.

Se si disegna il viaggio dell’eroe come un cerchio che parte dall’innocenza dell’infante e termina nella padronanza di se stessi del Re, il Giullare si posiziona proprio lì, tra il Re e il Bambino. La consapevolezza e l’innocenza che si mescolano come nitro e glicerina, pronti ad esplodere.

E Roby si era, non so quanto scientemente, posizionato proprio lì. Il suo cappello a sonagli erano la sua chitarra e la sua voce ma i meccanismi giullareschi li aveva reinterpretati a suo modo e li padroneggiava. Non c’è un senese, o uno studente fuori sede che abbia vissuto a Siena tra il 1980 e il 2012 che non abbia ballato o riso o che non abbia sentito il grido di incitamento “a bolloreeeee!!!”.

Il “Menestrello” che dalla radio derideva in rima presidenti e giocatori del Siena, o il “Chicchero” (il termine senese per dire appunto “Giullare”) che si prendeva gioco del Sindaco, del Rettore, o dell’Arcirozzo di turno che lo invitavano a suonare ai loro pranzi e alle loro cene.

Roby è stato un Rigoletto senza gobba, che veniva chiamato in virtù del proprio talento da chi da lui temeva (e contemporaneamente desiderava) farsi sbeffeggiare. Mi ricordo passeggiate per il Corso dove si inchinava a signore ingioiellate e, con le movenze di un Arlecchino, le apostrofava con “Signora Taldeitali, anche oggi sembra un lampadario”, e giù risate. Oppure, al decrepito professorone: “Dottor Tizio, si rizza sempre? Non mi faccia stare in pensiero”. In rarissimi casi ho visto qualcuno risentirsi o offendersi, al massimo provavano invano a zittirlo con un: “Roby!!!”. Anche nelle commedie di Shakespeare, chi non veniva preso di mira dal Saltimbanco, si risentiva, perché non si sentiva importante al pari degli altri.

Roberto è forse la migliore espressione di questa polverosa città borghese, con il cappotto color cammello che odora di naftalina. Lui li chiamava “gli impagliati”. La migliore espressione perché sapeva che (citando una canzone della sua Operetta) “la libertà è un cavallo che scalpita in ogni cuore, anche in quello più timido”. E la sua manifestazione di libertà è stata quella di scegliere se diventare un divo che fugge via da qui, o un giullare che resta.

Alla stessa distanza dai potenti come dai bambini. In perfetto equilibrio tra il potere e l’innocenza. E forse è proprio per questo che, tra le migliaia di persone che lo hanno pianto il giorno del suo funerale, c’erano Sindaci, Rettori, Arcirozzi, Studenti, i suoi amici fraterni e tanti, tanti bambini. E ogni lacrima aveva lo stesso sapore. Quello del dolore di aver perduto per sempre l’unico Giullare di Siena.