I ginocchi sbucciati
A Siena le ginocchia si chiamano “ginocchi” per cui passatemi la licenza poetica del titolo.
Stamani ho rivisto, dopo tanto tempo, un esemplare di bambino con i ginocchi sbucciati. Credevo fossero in via d’estinzione e invece, quel ragazzino che andava a scuola con un pantalone della tuta alzato e con il ginocchio fasciato da una garza, mi ha rimesso in moto la mia macchina del tempo personale. Mi ero rassegnato al fatto che i bambini avessero smesso di giocare per la strada procurandosi delle ferite e quella gamba malconcia mi ha restituito una speranza. La speranza di rivedere qualche gruppetto di bambini che, invece di andare a scuola, si trovano in Piazza del Mercato a fare il Palio delle biciclette, tirandole a sorte perché nel Palio si fa così e poi tornano a casa inventandosene un’altra per giustificare quei jeans strappati e sanguinosi. Mi ero rassegnato al fatto che a forza di difendere i nostri figli dal bullismo, gli abbiamo tolto l’educazione dello scapaccione, della masa, del biscotto, della piffera dati a fin di bene.
Mi ero rassegnato al fatto che, in un mondo in cui tutto è organizzato, anche il tempo libero ci rende prigionieri. Prigionieri di orari da rispettare, di lezioni di sport dove gli amici non li scegli da solo, prigionieri di un’educazione che non prevede la maleducazione che si trova in natura nel corso della vita. I ginocchi sbucciati erano un dolore terapeutico, perché la vita ha bisogno di croste che si formano e poi staccano al tempo giusto. E se provi a staccarti le croste dal ginocchio prima del tempo, nove volte su dieci tocca ripartire da capo, dalla carne viva. Ed è più facile che resti la cicatrice.
Siano benedetti i ginocchi sbucciati e sia benedetta la vita, anche quando è dura e grigia come la pietra serena.