chiavi di casa

La terribile Legge del Mazzo di Chiavi

Stamani ho perso le chiavi di casa che ho immediatamente ritrovato nella tasca di un giubbotto che non mi mettevo da una settimana. Eppure le avevo usate anche ieri.

Non credendo nei fantasmi ma essendo un profondo conoscitore delle Leggi di Murphy, mi sono appoggiato al postulato: “Se perdi un mazzo di chiavi, cercale nel posto dove non sei stato negli ultimi due giorni”. Infatti ha funzionato. W Murphy.

Quindi ho voluto mettere nero su bianco alcuni dogmi che riguardano il rapporto tra gli essere umani e le loro chiavi di casa.

  • Se cerchi le chiavi in una tasca, stai tranquillo che sono nella tasca opposta.
  • Se provi a fregare la legge precedente, cercando le chiavi nella tasca opposta a quella che avevi pensato, sono comunque in quella opposta.
  • Se hai in mano una borsa della spesa, le chiavi si trovano nella tasca corrispondente alla mano occupata.
  • Se hai in tasca due mazzi di chiavi, il primo che troverai sarà sempre quello che non ti serve.
  • Se hai due mani occupate e ne liberi una per cercare le chiavi in tasca, avrai di sicuro liberato la mano più lontana dalla tasca giusta.
  • Se hai le chiavi in una borsa, è molto probabile che non sia la borsa che hai preso per uscire.
  • Se mentre stai gestendo le cose che hai in mano, ti cadono le chiavi, è molto probabile che tu ti trovi esattamente sopra un tombino.
  • Di solito troverai la chiave per entrare in casa, appena dopo che la tua vescica si è svuotata nei tuoi calzoni.
  • Sedevi andare urgentemente in bagno e cerchi le chiavi, nei tuoi pantaloni raddoppieranno magicamente il numero delle tasche,
  • Di solito la chiave giusta si materializza tra le tue mani dopo almeno 6 imprecazioni.
  • Se stai cercando le chiavi in tasca aumentano le probabilità che squilli il tuo cellulare.
  • Se squilla il cellulare mentre stai cercando le chiavi, è altamente probabile che tu abbia almeno una mano occupata.
  • Se possiedi due mazzi di chiavi, quello che tocchi per primo in tasca è sempre l’altro.
  • Se esce una persona dal portone, lo farà probabilmente quando hai girato la chiave nella toppa, trascinandoti dentro con lui.

W Murphy, abbasso le tasche!

 

 

chewing gum

Mordersi la lingua: la tentazione di parlare di politica.

Come tutti i frequentatori di Facebook anche io ho la certezza di essere più intelligente, più esperto, più furbo di tutti gli altri commentatori. Ho fatto l’errore di mordermi fino ad oggi la lingua come se fosse un chewing gum, per non parlare di politica. Ma, siccome vedo che in molti ci consegnano interessanti spunti di riflessione, e soprattutto visto che sta prevalendo la buona creanza sullo scontro verbale fatto di denigrazione dell’avversario, senza che nessuno abbia, fortunatamente, sentito il bisogno di ricorrere ad ideologie divisive e a morti ammazzati su cui posare una bandierina del Risiko, posso affermare, senza timore di essere smentito, che ho già maturato innumerevoli convinzioni riguardo a questa mitica campagna elettorale. Una campagna elettorale che qualcuno descrive come pessima. Per me, al contrario, è esaltante!

Erano anni che non si vedevano confronti televisivi tra candidati premier che si sfidano in punta di fioretto su temi come la scuola pubblica, l’occupazione giovanile, l’ambiente, la ricerca scientifica citando dati, confutando tesi, insegnandoci qualcosa, proponendo strade alternative per costruire il futuro e chiarendoci le idee su chi preferire al momento di fare il segno della croce. Perché, e anche stavolta sarà così, nessuno vorrebbe essere governato da qualcuno che non stima affatto.

Ho già individuato almeno tre alternative, tutte convincenti, per garantire a mio figlio un futuro fatto di certezze. E’ bello vedere che un Paese come il nostro, stimato all’estero e da sempre guidato da leader rispettati per la loro autorevolezza, possa produrre così tante idee su temi come innovazione, energie rinnovabili, cultura, sociale, lavoro. Un Paese che se ne sbatte se la Nazionale non va ai Mondiali perché se vuoi passare una serata di giugno, c’è sempre un museo aperto dopo cena. Un Paese dove chi va in televisione a parlare di arte lo fa sottovoce perché un’opinione diversa dalla propria è comunque una ricchezza. E così chi parla di economia, di politica, di storia, di sport.

E grazie al cielo anche stavolta stiamo rispettando la nostra buona prassi, per cui l’Europa ci prende come modello e che tutti gli altri Paesi ci invidiano, di scegliere noi chi ci rappresenta in Parlamento. Avremo la maturità di mandare in Parlamento persone che si tengono tutto lo stipendio che siamo felici di dargli, perché meritato. Perché chi ha la responsabilità di governare e lo fa bene, è giusto che venga pagato bene.

Anche stavolta avremo un governo che durerà cinque anni, dove alla sanità c’è un luminare e ai trasporti un capostazione, e dove la politica serve ad aggiustare la coperta quando diventa troppo corta, mica a togliertela del tutto in pieno inverno, solo perché se cambia il vento, chi ha portato il pallone lo porta via con sé e addio partita.

Per la prima volta, dopo tanti anni ci sarà un ricambio generazionale che non sarà solo di facciata. I vecchi arnesi si faranno da parte e andranno a godersi il meritato riposo dopo tanti anni di buoni servigi nell’interesse di tutti. E la nuova classe dirigente cercherà con loro un dialogo per conservare il buono di quanto fatto nel passato senza dover ricominciare tutto da capo.

Il bello di questa campagna elettorale, che mi riempie il cuore di gioia, è che è impostata sulla verità, sul dirsi in faccia le cose come stanno. In questo i social stanno dando una bella mano. fornendoci ogni giorno notizie validate e provenienti da fonti autorevoli. E’ stato bello, infatti, vedere che in Italia il giornalismo non ha bisogno di vestirsi da pupazzo o da Iena per andare a scoperchiare qualche fogna.

Il 4 marzo sarà un grande giorno. Sarà una finestra sul futuro che avrà l’odore della primavera. Un odore di buono, che ci rammenta la storia del nostro Paese, fatta di battaglie vinte grazie alla trasparenza e senza scendere mai a compromessi con gente di malaffare che suona il piano (neanche tanto piano), a quattro mani con chi ci comanda.

Il 4 marzo potrò smettere di mordermi la lingua.

W l’Italia. W i chewing gum.

 

scared little girl in her bed

I sei gradi della Paura

Se gli Ammerigheni vi hanno convinto che a fine ottobre la zucca è meglio del Pan co’ Santi, ecco una piccola infografica per aiutavi ad usare in maniera appropriata il termine “paura”. Perché le emozioni hanno tante sfumature e, se proprio volete avere paura, cercate di farlo con la terminologia corretta.

i sei gradi della paura

Infografica: i sei gradi della paura

Detto questo, qui sotto proverò a fare degli esempi per chiarire meglio quello che l’infografica potrebbe non avere descritto bene:

5 esempi di TIMORE:

  1. “Ho il timore che quella cosa che ho appena mangiato non sia Nutella”
  2. “Ho il timore che per i prossimi due mesi non perderò un etto.”
  3. “Temo che Babbo Natale non esista, diciamo”
  4. “Temo che se vado al Vinitaly mi ubriacherò selvaggiamente”
  5. “Temo che anche quest’anno non comprerò mai la Gazzetta dello Sport”

5 esempi di ANSIA:

  1. “Tra due mesi devo fare le analisi del sangue. Che ansia!”
  2. “Il fatto che su quella lettera ci sia scritto Equitalia mi genera un pochina di ansia…”
  3. “Domani c’è lo sciopero dei taxi, sono in ansia”
  4. “E’ già un mese che non so come sta Jon Snow, sono in ansia per lui”
  5. “Il mio amico Leonardo Di Caprio si è lasciato con la fidanzata, ma tanto in ansia per lui non ci sto”

5 esempi di SPAVENTO:

  1. “Ahhhh, è finito il prosecco!”
  2. “Oddio, non sei una donna?” “No, tesoro!”
  3. “Cos’era quel flash?” “L’autovelox!”
  4. “Mammaaaa! Cos’è quella cosa nel piatto?” “Lasagne, amore!”
  5. “Ahhhhh, che paura!” “Vabbè, ritorna quando ho finito di truccarmi!”

5 esempi di PANICO:

  1. “Perché quel signore con la barba e il turbante ha appena sgozzato la hostess???!!!!!”
  2. “Dottore, perché sta piangendo con le mie analisi in mano?”
  3. “Qualcuno tiri subito fuori un caricabatterie dell’iphone, vi prego!!!!”
  4. “Come si fa ad uscire da questo cazzo di Sebach!!! Aiutooo!!!!”
  5. “Cosa intende con “Le hanno clonato la carta di credito?!””

5 esempi di TERRORE:

  1. “Non c’è il wifi in questo albergo? Ma sta scherzando?”
  2. “Dottore sia più chiaro, cosa significa “sono tre gemelli”?”
  3. “Ma davvero siamo ad una degustazione di tofu?”
  4. “Dove mi avete trasferito? A Vibo Valenzia????”
  5. “Negli alpini? Ma io lo avevo scritto per scherzo!!!”

5 esempi di ORRORE:

  1. “Ha vinto Trump? Noooo!”
  2. “Da quando hanno aperto il ristorante cinese non trovo più il gatto.”
  3. “Ma davvero dopo la palestra non fai la doccia?” “Se è per questo neanche quando torno a casa!”
  4. “Rivestiti, ti prego!”
  5. “Vabbene l’ascensore bloccato da stamani, ma almeno non scorreggiate, cazzo!”

 

 

maestà di duccio

La Maestà di Duccio è stata “arte contemporanea”

Come si fa a difendere la tradizione? Me lo domando da tanto tempo e spesso i social servono più a smontare che a costruire dei nuovi convincimenti in merito.

Punto uno: cosa è la tradizione? Fino a che era viva la mia nonna Marina  era “tradizione” mangiare il pollo in galantina la sera di Natale. Fino a che non morì un cavallo tra i tavolini apparecchiati in Piazza era “tradizione” guardare le prove di notte senza che nessuno facesse pulito. Fino a che c’erano le Torri Gemelle era tradizione scattarsi una bella foto dall’ultimo piano della Torre Nord. Fino a che c’era il Monte bello solido e rigoglioso era “tradizione” andare a fare la questua per qualsiasi bella idea. Non confondiamo la tradizione con le abitudini che ci fanno comodo.

Punto due: cosa è consono con una città medievale? E qui si apre un mondo. Perché se si ragiona per estetica, allora si va di opinione ma se si ragiona per coerenza e si vuole proprio essere ortodossi, allora bisogna togliere tutto ciò che con il medioevo proprio non c’entra niente: il sushi, il kebab (magari qualche cavaliere templare durante le Crociate l’ha mangiato, chissà), la ZTL, le telecamere (e chi glielo spiega agli amici della Lega), le scale mobili, la stazione, la tangenziale, i bancomat, i tornelli allo stadio, lo stadio, la Robur 1904, il cinema in Fortezza, la Fortezza (che ci ricorda che se ne buscava come noci), la Divina Bellezza, i distributori di panforte dentro al Duomo, la Camera di Commercio (ahhh, che soddisfazione), la cablatura e il Chiosco di Milkone, perché il lampredotto è fiorentino e qui a Sienona si mangia la trippa al sugo, per tradizione!

Punto tre: chi deve difendere la tradizione? Anche qui l’affare si ingrossa. La risposta è ardua: Quelli di Monteaperti? Quelli di Chiusi? Quelli delle Lastre? Quelli del Giuggiolo? Quelli con l’I726? Quelli con l’Isee? Quelli dell’Isis? Quelli dell’Isola d’Arbia? Il mio pensiero, per quel poco che può valere, è che la tradizione, ammesso che si riesca a capire cos’è, la debba difendere chi ama la tradizione più di se stesso. E intendo tutta la tradizione, non solo quella che risponde ai suoi colori e soprattutto ai suoi tornaconti.

Punto quattro: come si difende la tradizione dai difensori della tradizione? Questa è facile; ci vuole veramente poco: basta capire la sottile differenza tra chi parla davvero in favore della tradizione e chi latra.

Punto cinque: la grandezza di un’epoca sta nel difendere il passato ma cercare di creare un futuro. Mi immagino che anche Duccio, Simone e i Lorenzetti, abbiano dovuto sorbirsi le infamate da parte di chi giudicava la loro arte contemporanea, uno scempio dello status quo. Beati loro che non dovevano rispondere su facebook, sennò sai che madonne!

scarpette baby

“Dopodomani” è un gran giorno

Dei giorni della vita, quello che preferisco è “dopodomani”. Perché “dopodomani” ti concede di avere un giorno in più per essere pronto.

Quando sei a scuola, se proprio ti devono interrogare, è meglio che sia dopodomani. Perché hai sempre l’illusione che se qualcosa la puoi aggiustare la aggiusterai domani. E dopodomani farai il culo alla professoressa. 

Dopodomani si parte per un viaggio. “Hai preparato tutto?” “Tranquilla, le ultime cose si fanno domani!”

Due giorni prima di “dopodomani” non c’è ansia, quella si rimanda a domani. E avere l’illusione di avere un giorno in più ti fa godere il bello di quello che porrebbe essere. 

“Quando me lo presenti quel lavoro? Domani?” “No dai, facciamo dopodomani.”

Sono uno che ha sempre odiato rimandare le cose. Uno di quelli che mangiavano sempre l’uovo in culo alla gallina. A quarant’anni suonati ho imparato che pensarci un giorno in più fa venire le cose meglio.

La vigilia è il giorno dei dubbi, il giorno prima della vigilia è quello dei sogni.

Anche nel Palio, dei quattro giorni, il più bello è quello dove si corre dopodomani. Perché tutti sanno che, male che vada, domani è un altro giorno per godersela. Invece no. Domani si rimugina, si pensa che ci sarà qualcosa che potrebbe andare storto, che ieri si poteva fare qualcosa in più. Ma ieri era ieri, era il giorno delle speranze. Chi se ne frega.

Da quando ho imparato a godermi le cose che accadranno dopodomani vivo meglio. Provateci anche voi, poi mi raccontate.

A proposito, dopodomani nasce mio figlio. Ci sentiamo dopodomani. Oggi me la godo.

politica senese

La politica del “livellamento in basso”

La Politica è caduta in basso. Non ci sono più i “tromboni” di una volta (che a Siena non sono “quelli che se la credono”, ma quelli che si spera ci tocchino in sorte) e la superiorità, se c’è, è tutto tranne che manifesta.

Sono anni che ci dobbiamo accontentare di un livellamento in basso dei nostri politici, dal livello nazionale a quello locale. Sono anni che non “si salta” dopo un’elezione. Ci tocca fare il Palio con quello che ti danno. Si torna sempre a casa col capo basso, sperando che ti tocchi il meno peggio. Perché quando c’è un livellamento in basso, i troiai sono troiai veri. C’è quello che non vuole saperne di stare al canape e ti posta l’hashtag razzista su Facebook, quello che non vuole entrare se è di rincorsa e ti cambia idea al momento della votazione decisiva, quello che dopo due giri primo si dimette, quello che va a dritto a tutte le curve, quello che fa emorragia di voti, quello che sembra che tu ci possa fare una bella paliata ma poi, nella stalla, inizia a dimagrire e non ci ricavi più niente.

In Politica il livello basso non paga quasi mai. Perché, proprio come accade nel Palio, che per fare le metafore pare fatto apposta, alla fine “quello che vince” c’è sempre. L’unica differenza è che in un caso ti metti il ciuccio e ti diverti, nell’altro la poltrona la danno a lui. E poi te lo ciucci.

jon snow

Il giorno in cui finirà Il Trono di Spade

 

Il giorno in cui finirà “Il Trono di Spade” sarà più o meno come il giorno in cui ti dicono che devi proprio smettere di farti le pere. “Hai capito?! Devi smet-te-re!”
Inizialmente ci sentiremo liberati; sono otto anni che siamo entrati nel tunnel, ma già dal giorno dopo, come tossici in cerca di una dose, andremo a rivederci la prima puntata della prima stagione. Lo faremo con gli occhi pieni di pianto, perché, di certo, nell’ultimissima puntata qualcuno a cui ci siamo affezionati morirà di sicuro. Perché gli autori de “Il trono di spade” non hanno fatto lo stage alla Disney: il lieto fine scordatevelo. I bambini o vengono accoppati o gambizzati, nel migliore dei casi restano orfani e gli tocca iniziare a tagliare gole; le fanciulle se sono buone e belle vengono avvelenate, stuprate o fatte saltare per aria (e non sempre in questo ordine); gli eroi decapitati o mutilati; i ritardati schiacciati davanti a una porta, i nani traditi.
Ciò di cui non possiamo fare a meno in questa serie è il verismo della crudeltà che, infilato tra draghi e giganti, ci fa sentire meno sadici.
Come succede quando sei obbligato a recarti al SERT, ti daranno un po’ di merchandising per farti passare l’astinenza e allora sceglierai la maglietta con il lupo o con il totano dei Greyjoy, per fare lo sfigato con le palle (che poi i Greyjoy, diciamocelo, non è che brillino per questo). Oppure ti troverai su Amazon a cercare con la bava alla bocca la action figure di Hodor o di Brienne di Tarth. Io sceglierò quella del grasso ubriacone Robert Baratheon, ma non vi dirò mai il perché.
Quando finirà il Trono di Spade pregheremo i vecchi e i nuovi Dei che almeno ci mandino in onda uno spin off su Valirya o su i Guardiani della Notte. Andremo su youtube a cercare informazioni sulla fine che hanno fatto quei pochi che si sono salvati dal fuoco dei draghi o dall’altofuoco.
E sarà così fino a che qualche nostro amico pusher non ci spingerà verso una nuova serie per la quale rischieremo di nuovo l’overdose.
Perché si può anche vivere senza droghe, si può smettere con fatica di bere e di fumare e anche del sesso se ne può fare, con l’esperienza, a meno. Ma, fino a che siamo vivi, qualche dipendenza bisognerà pur averla.
Man suffers from diarrhea holds toilet paper roll

Diosmectal non è una bestemmia

Quando mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande rispondevo: voglio essere Adamo. No, non per girare nudo come un baco per il Paradiso, né per lavorare con sudore per aver mangiato una mela: la quale toglie sì, il medico di torno ma ti mette anche nei casini se ti avevano detto di non prenderla.

Volevo essere Adamo perché era quello che per primo dette i nomi alle cose. Vuoi mettere quante fatture da copywriter avrei potuto staccare. Avrei fatto di meglio di quello che chiamò la candela “moccolo” o di quello che vedendo un fiore giallo lo nomò “pisciacane”.

Sicuramente non avrei potuto fare meglio del copy che ha dato il nome a quella medicina che ho preso oggi in farmacia: il Diosmectal.

Vuoi per il caldo di Caronte, vuoi perché questo Palio mi è rimasto indigesto, fattostà che è dal 3 di luglio che passo le notti in bianco. Ora, bianco è una parola grossa. Diciamo marroncino. Ecco, rende di più l’idea.

Stamani sono uscito di casa come se mi avesse svegliato George Romero e mi sono trascinato a lavoro dopo aver seguito tre giorni di consigli naturali e “omeopatici”.

“Prendi un teino caldo col limone”. Certo! L’ho fatto. Con la conseguenza che mentre ero al bagno sudavo anche.

“Prendi un paio di banane”. Sì ma l’unico modo perché abbiano effetto è che mi ci metta a sedere sopra.

“Fatti una pasta in bianco!”. Tortellini con la panna è in bianco, vero?

Insomma, niente. Nulla da fare. L’unica sensazione era quella di avere Barry White nel duodeno. Gonfio e gorgogliante con tonalità che sfiorano il rutto.

Così mi sono deciso e sono entrato in farmacia. La farmacista, alla quale ho raccontato per filo e per segno tutto senza vergogna (questo blog mi ha azzerato i freni inibitori), mi ha detto: “Ci penso io!”

E’ tornata con una scatola contenente delle bustine dicendomi: “Una subito e una prima di andare a letto!”.

Io ho preso quella “subito”.

E’ praticamente un etto di calcina che devi ingoiare mescolata con l’acqua. Il problema è che non si scioglie e resta in fondo al bicchiere. Così la devi prendere a cucchiaiate.

E’ MIRACOLOSO!!!

Credo l’abbia inventato quello che tirò su il Muro di Berlino in una notte. Si forma un parapetto matton per ritto tra i colon e l’intestino tenue. Senti questa muraglia cinese in cui la flora batterica, ormai separata per sempre, cerca di mandarsi messaggi in bottiglia. Sei murato vivo! Se lo scopre Trump, addio Messico.

Ma sei felice.

E’ così che deve essersi sentito il copy che gli ha dato il nome: “Diosmectal”. Basta una bustina e smetti di fare tutto. Soprattutto di bestemmiare.

La domanda che mi pongo adesso è: quella prima di andare a letto, a che serve?

despa-cito

Despa Cito

Il tormentone da milioni di click che ha dato il colpo di grazia alla mia già precaria relazione con il mio cognome.

Alla fine degli anni ’70 essere nati a Siena e possedere un cognome che non finiva per “i” (ma era preferibile uno che finiva per “ini”), era abbastanza raro. Invece non era raro essere preso in giro per quella “o” che lo chiudeva. Vaglielo a spiegare che, da parte di mamma sono discendente di quelli che hanno scolpito le statue del Duomo, di quello che ha restaurato l’affresco dietro l’altare della Santissima Annunziata, che il mi’ nonno era amico di Mastuchino e che il mì bisnonno era protettore di sette contrade (perché prima funzionava così, se volevi bene a Siena).
Non c’era verso, per gran parte dei compagni di classe ero un “terrone”. Uno, una volta mi spiegò che ero stato sfortunato perché se almeno il cognome fosse finito con la “a” potevo fare finta di essere di Milano. Ma con la “o” non c’era scampo: terrone!

Il nome te lo porti dietro a vita e io ne avevo uno che, per gli “amici” mi faceva sembrare il fratello della scimmia di Tarzan. Feci delle rimostranze a mio padre chiedendogli almeno di poter utilizzare il cognome di mia nonna paterna. “Lentini” era camuffabilissimo e mi avrebbe mimetizzato alla grande tra i vari Bossini, Cesarini, Lombardini, Ceccherini, Bernini, Bruschettini. Lui provò a spiegarmi che Cito vuol dire veloce e che i suoi avi non erano gli Zulù ma Pitagora e Archimede. Tuttavia ma non fu abbastanza convincente. Smisi anche di leggere Topolino per essere sicuro di non trovare tracce del mio trisavolo Archimede Pitagorico.

Il nome comune era Bianciardi, c’era almeno un Bianciardi in ogni classe (io ne avevo due). Per farsi burla di me il mio amico Duccio, dall’alto del suo “Naldini”, mi chiama ancora “Bianciardino”. Come a dire: “sei di Siena anche te, dai. Però meno.”
Al liceo la botta grossa arrivò quando quella splendida ragazza di terza mi chiese: “E a te perché ti chiamano Cito?”. Fu lì, credo, che iniziai a masticarmi le unghie.

Le ore di scienze erano tutte una risata; per gli altri. Quando la prof spiegava le cellule: citologia, citoplasma, citozoi, citomegalovirus erano come una puntata di Mr Bean. Peccato che Mr Bean fossi io. Vissi un attimo di pausa quando passò dal Tolomei una ragazza che di cognome faceva “Chiavai”. Ahahahahhah, chiavai!!!! Ma, maledizione, cambiò subito scuola prima della fine del quadrimestre.
Erano gli anni del “Drive-in” e la domenica sera Giorgio Faletti, che ancora non aveva scoperto di essere uno scrittore di best seller, faceva Vito Catozzo, il poliziotto terroncello tamarro con la pancia. Secondo voi come mi chiamavano a scuola il lunedì mattina? Cito Catozzo.

Finalmente arrivò la maturità. “Alè! Andiamo all’università, lì di gente con il cognome strano sai quanta ce n’è!!!”
Al primo esame di inglese il professore scozzese mi segna come “Gamoiero Ciko” (c’è qualche stupido amichetto che fa il giornalista che mi chiama ancora così). L’anno dopo, seduti all’appello di informatica generale, il professore ci chiama in ordine alfabetico. Quando dalla C passa alla D, inizio a temere il peggio. Lo faccio arrivare in fondo e, siccome non ero stato chiamato, alzo la mano. Scoprii così di essere stato iscritto come Ciro Giampiastro. E per giunta bocciai anche all’esame.
Con l’età ho imparato a conviverci (mi ricordo anche di aver consolato mio padre quando indagarono il sindaco di Taranto che si chiamava come noi e che “non gli somigghia pe nniente”, praticamente due gemelli omozigoti).
Ho superato le prese di culo, i versi della scimmietta, i saluti alla Padrino, le domande su cosa avrei fatto se avesse vinto la Lega.

Ma quando, per colpa di quella canzoncina di merda, che fa “Pasito, pasito”, da qualche mese la gente ha cominciato a chiamarmi Despa, mi viene voglia di andare all’anagrafe e dargli foco. E per combustibile uso un dj che ama il commerciale latinoamericano.

Ps. Babbo, si fa per scherzare.

ciliegie

Le ciliegie e gli uccelli migratori

Non avendo alcun talento nello sport, il mio sport preferito è sempre stato quello di cercare metafore universali nelle piccole immagini del quotidiano. Passeggiando intorno agli alberi della casa in campagna, mi sono messo ad osservare il ciliegio, bello carico di bacche ancora verdi. Ho pensato ad alta voce: “quest’anno ne ha fatte una marea”. Mia madre ha subito stroncato il mio ottimismo, “dipende da quante ce ne lasceranno gli uccelli”.
Sì, perché ogni anno in questa stagione si combatte una battaglia senza esclusione di colpi (ma senza sparare) tra i miei genitori e stormi di merli, passeri, storni e pettirossi. Credo che Hitchcock si sia ispirato al mio orto quando ha girato “Gli uccelli”.
In questa lotta ci ho rivisto la vanità di chi affronta il tema dell’immigrazione con l’illusione di poterlo gestire e controllare a proprio uso e consumo, come se, solo per il fatto di essere nati qui, fossimo noi i padroni del ciliegio.

Ho quindi elaborato una serie di proposte per risolvere una volta per tutte la questione:

1. Partendo dal dato di fatto che il ciliegio è nostro, lo dice il catasto, chi vorrà mangiare le nostre ciliegie dovrà, per forza, passare il cancello e chiederci il permesso. Se i richiedenti arrivano dal cielo, almeno ci facciano la cortesia di arrivare alla spicciolata e non in gruppi superiori a 10. (Ad oggi questa proposta non è stata ascoltata)
2. Per gestire meglio i flussi, si richiede ai volatili di non arrivare tutti nello stesso periodo, quando le ciliegie sono mature, ma di organizzarsi in turni per coprire anche i mesi invernali e quelli estivi, quando le ciliegie non ci sono. (Ci è stato risposto con un fischiettio da un fringuello che aveva tanto il suono di una presa di culo)
3. Dal momento che abbiamo un vicino a destra e uno a sinistra della nostra proprietà, chiediamo ai confinanti di prendersi una parte degli uccelli sui propri ciliegi. Il vicino a sinistra ha detto che lui fa già la sua parte accogliendo stormi e passeri anche nell’albicocco. Quello nella proprietà a destra ha risposto segando il proprio ciliegio e ricavandone un posto auto.
4. Come soluzioni interne ci siamo organizzati in corvè di 6/8 ore per dissuadere i volatili dall’approdare sui nostri rami: mia madre ci parla chiedendo per favore di transitare oltre senza recare disturbo, mio padre ha caricato una raccolta di dvd sui rami sperando che i riflessi sui dischi impauriscano lo stormo. Io ho improvvisato una manifestazione supportata dalla lobby dei fruttivendoli che, temo, abbia dei conflitti di interesse notevoli.
5. Abbiamo pensato di dipingere con lo spray di verde tutte le ciliegie, in questo modo gli uccellini non capiranno che sono mature e noi potremo mangiarle perché siamo più furbi. Non siamo noi quelli dell’illuminismo? (Abbiamo successivamente scoperto che la vernice era tossica)
6. Abbiamo chiesto al Comune di Sovicille di farsi carico del problema perché non può essere mica il singolo, solo perché il suo orto è posizionato proprio dove passano i flussi migratori, a restare senza ciliegie tutti gli anni. Ci è stato risposto che ci stanno pensando ma le priorità sono altre.
7. Abbiamo preso la decisione di cogliere noi le ciliegie e inviare il 10% del raccolto dove gli uccelli hanno svernato, perché è giusto aiutarli a casa loro.
8. Ci sono dei vicini che ci fanno notare che alcuni uccelli si sono permessi di schifare le nostre ciliegie dando una beccata e buttandole in terra. Almeno mangiatele, perdio! Meglio se quelle marcite, tanto per voi che differenza fa?
9. Si è verificato il caso di un merlo che canta “ti mangio ciliegea, no pago affitto”. Mio padre si è subito informato di fosse è quell’imbecille.
10. Alla fine abbiamo fatto una riunione di famiglia dove abbiamo deliberato che a noi di ciliegie bastano due panieri. Ok agli uccelli, basta che tolgano da terra i noccioli.

Mi sono messo a guardare il ciliegio. E’ bellissimo. E penso che sia naturale che continuino a volarci sopra gli uccelli.

Fine della metafora.