L’Urgenza del Parlare (a vanvera)

parlare

Siamo tutti ammalati. La malattia ce l’ha attaccata un ragazzo di nome Marco. Marco Zuckerberg. Ci ha messo in mano un megafono e ci è esploso come un giocattolo bomba. E tutti noi, con le mani a brandelli e con la faccia bruciacchiata non ce la facciamo, dobbiamo parlare. Dobbiamo postare. In sette o otto anni abbiamo sfanculato quelle cose che le nostre nonne ci avevano insegnato sventolandoci per un orecchio: la moderazione, la mediazione, la buona creanza, la buona educazione, il buon gusto. Tutta colpa di Marchino e del suo megafono esplosivo. La nonna ci aveva insegnato faticosamente a contare fino a dieci prima di parlare e Marco ci ha messo il tasto “Pubblica” che lampeggia quando arrivi a contare il due.

Erano risusciti a farci capire che non si parla prima che il nostro interlocutore abbia finito e ci hanno tirato fuori WhatsApp dove si conversa in gruppo ma ognuno segue il suo filo.

Cosicché un amico dice: “Avete saputo di Marta?” mentre un altro propone: “Pizzino stasera?” e un altro ancora esordisce con: “Quanto costa il Cinema in Fortezza?”. In questo modo viene fuori che Marta la chiamavano Jeeg Robot e il cinema costa come una pizza quattro stagioni più birra artigianale, la quale birra, tuttavia, è incinta di Sergio, uno dei fratelli Vanzina.

Il social ci sta dando armi per diventare isole che ascoltano solo se stesse. Che c’entra, siamo tutti iperinformati in tempo reale di quello che accade dall’altra parte del mondo e perfino nella casa accanto. Anche se conosciamo per filo e per segno l’altra parte del mondo (l’abbiamo vista su Instagram) e non ci salutiamo col vicino di pianerottolo. La gente parla con quei tre o quattrocento amici al giorno che per non fare sentire soli, chiami anche la notte alle tre, quando sarebbe giusto essere mandati a quel paese da chi ti fa vibrare il cellulare mentre sei in piena fase rem. O magari, quando finalmente, dopo tanto penare l’avevi chiesta e ottenuta.

Ma la cosa più atroce è l’urgenza del parlare. Ci avevano abituati ad aprire bocca solo se avevamo qualcosa di intelligente da dire. Ma niente, è saltato per aria anche questo. Dobbiamo dire per forza qualcosa, basta sia, altrimenti abbiamo paura che la prossima volta che ci guarderemo allo specchio non ci troveremo niente. E nel parlare per forza, per forza spesso si parla a vanvera, tanto per dire.

C’è chi commenta tutto. E chi critica tutto. C’è chi si lamenta di tutto e chi mette mi piace a tutto. Tutto. O niente. Meglio tutto. Meglio di niente.

Ognuno si sente contemporaneamente edotto ed autorizzato a dire la sua verità che, provenendo dal tamburellare sulla tastiera da parte di un luminare, è certamente e incontrovertibilmente, una verità assoluta.

Io ad esempio quando ho iniziato a scrivere questo post avevo qualcosa di intelligente da dire, ve lo giuro, ma l’ho dimenticata. Nel frattempo però ho fatto tre altri post del blog, quattro post su facebook e sei su Instagram. Su Twitter no, Twitter è morto. O è malato grave. Meglio Snapchat. Però poi dopo poco quello che dici scompare. Che forse non è mica un male. Forse. Boh? Condividi? Dai, condividi. Anche se non condividi, condividimelo, ti prego, fallo per me…

Vabbè dai, ora mi zitto. Per qualche ora. Anzi, no, mi è venuta una cosa ganzissima da dire. Ci vediamo su Facebook. Un post solo e poi smetto. Ma questo lo posto. Sì sì, questo lo posto. Alla zitta.

 

L’immagine è opera dell’illustratore Eiko Ojala. Potete trovare altri suoi capolavori qui: https://www.behance.net/eiko o qui: http://ploom.tv

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