Ricchezza di fine estate

valli

Stamani mi sono alzato tardi e questa è già una buona parte della ricchezza che ho trovato oggi per caso. Ho sceso le scale di pietra della mia casa di campagna con gli occhi pieni di cispe e mi sono incamminato per i viali della Fattoria di Montestigliano. Viali che trenta anni fa erano costeggiati da cipressi belli come erezioni mattutine ma che ora stentano malaticci e rinsecchiti. Anche la strada, che prima la potevi percorrere anche col monopattino, ora è una serie di calanchi che nemmeno una macchina da Camel Trophy oserebbe affrontare. Dopo un chilometro c’è una svolta a sinistra. Poco più avanti il cancello di un antico podere che qualcuno chiamó “Il Pozzo”. Accanto al cancello una strada che lo aggira che rappresenta tutta la pigrizia del mondo di chi non ha voglia di scendere dalla macchina per aprire un cancello. Oltre solo ulivi non potati che quest’anno non faranno olive. Sono andato più avanti e mi sono buttato giù per una strada nella quale ho preso una coppia di storte: una per ogni caviglia. Ero solo, anzi no. Ho percorso la discesa accompagnato da mosconi e tafani che devono aver scambiato la mia polo bianca per il groppone di una chianina. Un moscone mi si è tuffato in un orecchio ma ne è immediatamente riemerso disgustato. Un tafano, invece, ha trovato la strada del colletto e mi ha più volte baciato la schiena. Dopo un km e mezzo sono arrivato ad uno spiazzo che ricordavo pieno di alberi. Ora gli alberi sono ordinatamente accatastati nell’attesa che arrivi qualche proprietario di caminetti. La vista della Piana di Rosia era bellissima: in fondo a un campo di girasoli che hanno ormai abbassato la testa, passava lontana qualche macchina della quale non sentivo il rumore. Mi sono avvicinato al borgo di Valli evitando la stradina a sinistra che mi avrebbe riportato a casa passando da un vecchio cimitero di campagna dove restano le foto e i nomi di antichi contadini i cui genitori avevano trovato qualche libro per caso: Ivanoe, Gengisse, Vasintonne (maledetto impiegato dell’anagrafe che non sapeva scrivere Washington), Napoleone, Artù. La strada a destra porta invece proprio a Valli: a cinquecento metri in linea d’aria più sopra c’era la casa del fattore ma lì sotto nascevano e morivano i braccianti. Nacque in una di quelle case Evelina detta Vela, nonna di Marco, mio amico d’infanzia. Vela “emigró” in età da marito al Poggio di Stigliano, quattro chilometri più a nord senza più tornarci. Ora quelle case sono transennate, i tetti hanno perso la voglia e sono venuti giù. È rimasto in piedi solo un bel forno a legna, che non ha fatto più il pane dai tempi di Don Camillo al cinema. Le finestre sono abitate da famiglie di piccioni e da ritrovi di lucertole. Mentre passeggiavo tra quei ruderi mi sono immaginato a cavallo, padrone di quelle pietre, salutato dalle bestemmie dei contadini che mi regalavano uova calde e cipolle terrose. Ho immaginato di essere un milionario e ho pensato che non sognerei una barca da 40 metri. Il mio sogno sarebbe rimettere un tetto alle case di Valli e di rifare il pane in quel forno spento. Sono andato più avanti e ho trovato dei rovi. Stasera ci torno. Non con un progetto milionario e con un archistar ma ci tornerò con un paniere di vimini. E farò misdea di quelle poche more. Credendo di essere ricco come il Signorotto della Piana di Rosia.

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